LA SCUOLA SERALE PROFESSIONALE AD ARCORE

LA SCUOLA SERALE PROFESSIONALE AD ARCORE

1948-1951 TRE ANNI ALLA SCUOLA PROFESSIONALE SERALE AD ARCORE

 Queste curiose e simpatiche minime storie raccontate da Tonino Sala, nella sua frequentazione scolastica, hanno permesso di svelare una nuova pagina della storia passata arcorese, legata all’attenzione che in quegli anni, appena usciti dal conflitto mondiale, vide protagonista una classe imprenditoriale “illuminata” che opportunamente sollecitata da un’associazione locale di “liberi pensatori”, come li identifica Tonino,  diedero vita alla scuola serale professionale. Solo un accenno alla vita di questa istituzione, con la volontà di approfondirne i contorni e i contenuti, anche grazie al salvataggio dei superstiti documenti, di cui si fa nota appena sotto.

Note e ricordi quasi settant’anni dopo

Oggi la scuola non c’è più. Ha chiuso la sua vita nel 1975. Le difficoltà economiche, la riforma scolastica che unificò le medie e le cosiddette 150 ore, ne decretarono la fine. Tutto il materiale scolastico e tecnico (macchine e tecnigrafi) fu smobilitato e disparve. L’archivio, che conservava trent’anni di storia arcorese, fu mandato al macero; solo la buona volontà dell’ultimo segretario, avvisato a “operazione barbarossa” quasi conclusa, riuscì a salvarne briciole di memoria. Quelli che seguono sono una serie di raccontini distillati da neuroni personali ormai quasi in disuso, che riguardano la preistoria della scuola, quindi vi possono essere imprecisioni o addirittura cose sbagliate, ma, purtroppo è solo ciò che riaffiora nell’evocazione.
Tante persone citate nei racconti per la maggioranza dei presenti saranno solo nomi senza volto che compaiono e spariscono rientrando nel buio del passato senza storia.

VERBALE

Dal registro dei verbali della scuola professionale, il resoconto della prima seduta che sancisce la nascita della stessa.

Scuola serale
Negli anni immediatamente successivi alla guerra era piuttosto difficoltoso per i giovani trovare un posto di lavoro. In paese vi erano alcune industrie anche importanti ma il loro campo di applicazione richiedeva personale con qualifiche che evidentemente i ragazzi disoccupati non potevano avere, non solo, ma anche coloro che erano riusciti ad entrare nelle fabbriche si trovavano in condizione di doversi qualificare. Era quindi necessario disporre di corsi scolastici specifici che sviluppassero le materie proprie delle professioni presenti sul territorio: disegno tecnico-meccanico, tecnologia, fisica (meccanica), matematica e officina (cioè la traduzione in pratica, manualmente e sulle macchine, di ciò che si apprendeva sui libri).
Grazie alla buona volontà di persone lungimiranti e alla disponibilità di alcune aziende (Gilera, Falck, Varinelli, Bestetti), a fornire qualche macchina e qualche tecnico a fungere da insegnante, fu possibile impiantare e avviare la scuola che nell’autunno del 1947 iniziò il primo corso.
Il ciclo d’istruzione prevedeva dopo due anni di preparatorio, lo sviluppo di un programma, articolato in tre anni, alla fine dei quali, sostenuti regolari esami, veniva rilasciato un diploma che nelle aziende del circondario era garanzia di una istruzione professionale seria essendo curata e sostenuta da insegnanti reperiti nel mondo del lavoro. Nel corso del mio triennio vi insegnarono, oltre a professori qualificati, anche progettisti, disegnatori e capi officina della Gilera, della Bestetti, e della Falck, qualche serie di lezioni fu tenuta dall’ing. Varinelli
Il corso era serale, le aule erano quelle delle vecchie scuole elementari di via Trento e Trieste di cui si erge ancora il fantasma.

SEDE

La costruzione, che tra le sue innumerevoli funzioni, ospitò i primi anni della scuola professionale serale ad Arcore

L’officina era stata ricavata in quella specie di mansarda che era servita da mensa per i bisognosi che frequentavano le elementari e la Colonia elioterapica durante la guerra. Agli iscritti era richiesto, oltre frequenza e applicazione, anche il versamento di un modesto contributo mensile quale tassa di frequenza.

Alla scuola serale approdai nel 1948. Da oltre un anno già lavoravo a turni dal “Zerbon” (A.F.L. Falck Stabilimento di Arcore) come garzone avvolgitore di spole per i telai che producevano tela metallica. Nel chiacchiericcio con il Mario Ghezzi, classe 1929, anch’egli “falchetto” che alla scuola aveva frequentato il primo anno, avevo scoperto, che iscriversi e frequentare consentiva di essere esentati dai turni e di avere un posto con prospettive di qualifica professionale, perciò ero corso ad annotarmi.
In Falck esisteva una fondazione denominata “Amici della Scuola Giovanni Devoto” istituita per onorare l’insigne studioso marito di Giulia, una delle figlie di Giorgio Enrico Falck, fondatore della società (al quale è intitolata una delle vie del paese), Fondazione che assisteva economicamente i dipendenti studenti e i figli studenti di dipendenti, contribuendo al costo dei libri e delle tasse di frequenza; l’unico onere era ottenere la promozione. Per i dipendenti vi era anche una settimana di permesso premio retribuita e un extra in caso di medie scolastiche che arrivassero almeno all’otto.

Cosa fosse la Scuola in quel tempo risulta dalla scarsa documentazione arrivata fino a noi: una guerra continua per ottenere le aule, il locale per la segreteria, le sovvenzioni per pagare il corpo insegnante, la ricerca del materiale tecnico per allestire un’aula officina, ecc. Il tutto in uno scontro con la burocrazia degli istituti che operavano un controllo assiduo sul nuovo organismo. Se iniziò, sviluppò e durò quasi trent’anni, vi è solo da ringraziare le persone che con spirito di dedizione e sacrifici anche personali si impegnarono perché nascesse e fosse in grado di preparare giovani al mondo del lavoro pratico e non solo teorico.

Anno scolastico 1948-1949: Varinelli, Felice & C. ovvero “botta e risposta”

Ispezione del direttore e accoliti (Varinelli, il segretario Riva, il cavalier Mortarino, Martino Passoni, Sala Mario) in visita alle aule per costatare l’andamento e il progresso degli allievi.
Lezione di disegno in corso. Alcune domande qua e là, a caso, sul dove lavori, cosa fai, luogo di provenienza, poi Varinelli chiede a qualche allievo di alzarsi, pone qualche domanda sulla materia in svolgimento, commenta le risposte a volte approfondendo con spiegazioni ed esempi, a volte svicolando nel discorso sui fatti di vivere. Gira e rigira è il turno di Felice, allora operaio alla Gilera ma che ha già in corso studi di canto lirico. Varinelli pone la domanda. Felice non tergiversa, risponde subito secco: non lo so! Replica Varinelli: sei sincero ma sei ignorante! Ribatte Felice: lo so, vengo a scuola per imparare! Schermaglia chiusa.
Ora tocca a me.

scuola 1
Sono in prima fila. Sul piano del banco una tavola di legno e su questa un foglio da disegno, riga, squadra, compasso, gomma e matita. Varinelli sta passando, guarda di sfuggita poi gli arriva lo sguardo sul bianco del foglio, sulle mie mani e sulla punta della matita. Mi afferra la mano e la accosta al foglio. Per la verità, nonostante i lavacri le mani non sono molto linde: sembra che trasudino tracce oleose; comincia il panegirico sulla necessità di mantenere il disegno sempre pulito con i tratti ben delineati e senza sbavature, poi chiede spiegazioni. Rosso come un peperone cerco di spiegare che col mestiere che faccio avere le mani pulite, anche dopo il lavaggio, è un’impresa che non mi riesce. Interviene Mortarino, illustra lui il lavoro che faccio; è il mio Capo reparto, sa bene che paciugando tutto il giorno tra olio e grasso va a finire che la pelle poi trasuda quello che assorbe… e sulla spiegazione si chiude il primo atto.
Atto secondo: “Lapis moch fa spregasc”. Ora Varinelli prende la mia matita, alza gli occhiali e ne guarda la punta, poi si avvicina alla lavagna, ne copia, ingrandita, la forma che assomiglia a un cono tronco rosicchiato, quindi si volta alla platea e quasi scandalizzato, chiede come si possa disegnare con una punta del genere, ne segue una serie di raccomandazioni a mantenere gli attrezzi, e non solo quelli per il disegno, sempre al massimo dell’efficienza e della funzionalità.
Poi, via via anche gli altri visitatori prendono la parola esortando all’applicazione e all’impegno.

Il Nani Vacchelli

Fu il mio primo insegnante di fisica e tecnologia. Mi sembra di ricordare che si fosse diplomato perito dopo gli esami di riparazione, l’anno precedente alla sua salita in cattedra (dalle chiacchiere che si facevano in classe risultava che non avesse grande stima dell’unico suo compagno di corso che aveva raggiunta la maturità direttamente senza esami, diceva: “l’è un castraa”); ma il rapporto con la scolaresca viziato da una confidenza eccessiva non poteva avere quel minimo di soggezione che dovrebbe comunque esserci tra docente e scolari.
La lezione spesso degenerava in racconti di fatti che nulla avevano a che fare con la materia anche perché il Nani era uno dei calciatori che formavano la squadra della Falck (mi sembra che il suo ruolo fosse terzino destro) e scivolare dalla fisica-chimica al calcio era la cosa più naturale del mondo.
Dopo qualche lezione sparì, poi fu un susseguirsi di aspiranti insegnanti pescati qua e là nel novero dei tecnici di alcuni stabilimenti, finché da Villasanta arrivò un giovane “professore” che stabilmente occupò il posto.

Luigino Fumagalli e la febbre gialla

Capitava, nel corso dell’anno, che all’ultimo momento mancasse un insegnante, allora l’emergenza era superata ricorrendo al volontariato (diplomati o laureati, o tecnici che si erano resi disponibili in caso di necessità) e il volontario era convocato direttamente in aula.
Uno di questi era Luigino Fumagalli, già laureato veterinario, col quale, tra il ‘43 e il ‘46, tornando da scuola, avevo fatto il peripatetico, contando le traversine o facendo l’equilibrista sulle rotaie, lungo il tratto ferroviario tra Villasanta e Arcore. A quel tempo la certezza degli orari ferroviari era un’utopia, poteva capitare che si dovesse stare in stazione anche tre o quattro ore in attesa di un treno per Arcore; l’alternativa era la “Littorina” a metano della tratta Monza-Oggiono-Lecco che ci scaricava a Villasanta, poi “pedibuscalcantibus” rientrare al paese lungo la ferrovia.
Il tempo della lezione lo impiegava leggendoci un libro che, parlando dello scavo del canale di Panama, narrava diffusamente di un morbo che mieteva una moltitudine di vittime nei cantieri e delle ricerche fatte per controllarlo e debellarlo: la “febbre gialla”. Si emozionava ed emozionava anche la scolaresca in particolare, nella lettura, quando, per appurare quale fosse la via del contagio, un gruppo di volontari accettò di farsi chiudere in una baracca e lasciarsi infettare dalle zanzare per provare che fossero le portatrici del contagio.
Così che da una supplenza all’altra si arrivò quasi alla fine del libro.

Anno scolastico 1949-1950 – Intermezzo lirico di Schiavi

…tutto era nato da una provocazione quando, per rompere la tensione, nell’intermezzo tra lezione e approfondimento delle conoscenze caratteriali personali, il prof, saputo da Felice che stava studiando canto lirico, ritenendo fosse una battuta e ironizzando un po’ su questo fatto, chiarito che era voce da baritono, senza immaginare lontanamente che rischio stava per affrontare, lo invitò ad eseguire un brano per provare la verità dell’affermazione.
La sfida fu immediatamente raccolta e senza porre tempo di mezzo, il brano scelto: “O sole mio”, ebbe subito inizio nei mezzi toni dell’apertura tra il silenzio attonito degli scolari e un inizio di agitazione dell’insegnante che cominciava a rendersi conto dell’imprudenza commessa.

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“…Che bella cosa najurnata ‘e sole… “: l’introduzione che svolge il tema del risveglio del creato, dopo una notte di temporale, nella gioia consapevole dell’amore, ha un’armonia carezzevole su toni a mezza voce, poi la musica comincia ad esplodere nella luce del sole che sorge sopra l’orizzonte invadendo lo spazio e colorando l’aria, e il tono sale ad esaltare la meraviglia del nuovo giorno che si riflette nel volto dell’amata: “…ma n’atu sole…”.
La voce spiegata nel primo acuto rimbombò nel chiuso dell’aula facendo tintinnare i vetri ed ebbe il potere di mettere in movimento il prof che deciso ad interrompere il brano, balzava verso il cantante a braccia protese brancicando l’aria, pronto a tappargli la bocca; ma Felice, sgusciato dal posto, vanamente inseguito, senza smettere di cantare, fuggiva tra i banchi.

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Una foto, di qualche anno fa, del baritono Felice Schiavi, sullo sfondo della Scala di Milano, che lo vide protagonista durante la sua carriera.

Nel frattempo, richiamati dal canto, gli scolari delle altre classi, insegnanti in testa, si erano ammassati nel corridoio e aperta la porta stavano invadendo l’aula restringendo le corsie di fuga dei due impegnati nel carosello. Finalmente, Felice, resosi conto che sotto la pressione dell’inseguitore non avrebbe potuto eseguire la seconda strofa, balzò in piedi sul sedile del banco e difendendo la posizione si inarcò nell’acuto finale “…sta ‘nfronte a te!” tra lo scrosciare degli applausi.

Intermezzo politico – comizi ed elezioni

Era consuetudine che il luogo per i comizi politici, che si tenevano in paese per le varie chiamate elettorali, fosse il cortile delle scuole (tanto per capirci, quelle di Via Trento e Trieste, le uniche al tempo di cui si parla). I vari partiti si preoccupavano dell’organizzazione propagandistica: passaparola e manifesti, anche scritti a mano, qualche volta comparve anche un furgoncino con altoparlante che girava per il paese; poi, quando era il momento, Dante Centemero, coadiuvato dal padre (Cesarino Riboldi non aveva ancora iniziata l’attività, poi fu monopolio suo), a pagamento, predisponeva microfono e altoparlanti (lo faceva anche al tempo delle “adunate” quando parlava il Duce), e la manifestazione, più o meno affollata, aveva luogo.

Non vi era tribuna per l’oratore che si poneva al colmo della scala di acceso alla scuola e da lì dava corso al suo concione. Però, nonostante questo, la scuola serale (orario, mi pare di ricordare, dalle 20,30 alle 22,30) non si interrompeva, anzi, era l’uscita delle classi che interrompeva il comizio. Vi era comunque un gruppetto di scolari, ormai giovanotti, politicamente già coinvolti dall’indottrinamento che partecipava attivamente all’organizzazione e alla claque; non mancando di rumoreggiare e fischiare quando, nei contraddittori, era la parte avversa a prendere la parola.
Vi fu una sera nella quale due propagandisti di grossa taglia fisica venuti ad arringare il “poppolo” si trovarono a confrontarsi con qualcuno che chiedendo chiarimenti e contestando alcune affermazioni si era fatto sotto la scalinata: Felicetto, minuto come un passerotto, che sia per la massa, sia per il volume della voce e per i buu… dell’organizzazione boicottatrice addetta al disturbo vocale, non riusciva a farsi sentire, non esitò a salire le scale afferrare il microfono e dire le sue ragioni nonostante l’incombere dei due Golia. Non ne nacque alcun parapiglia in quanto ai vari comizi più che il popolo minuto, partecipavano le persone già orientate verso la parte politica che organizzava; solo pochi temerari di pensiero diverso osavano mostrarsi e soprattutto dissentire o prendere la parola.
I comizi paesani odierni non esistono più e se qualche sopravvissuto memore degli antichi tempi si prova a organizzarli si trova solo con i quattro gatti randagi che ciondolano per le vie sempre pronti ad arricchire assembramenti.

Ottorino Brigatti

Geometra (pardon, sono stato corretto, era perito edile), padre arcorese madre veneziana, sorella della moglie di “Ciccoeu” Cantù le cui vicende “bibitorie” sono raccontate in altra raccolta. Rotondetto, leggermente claudicante, pelata che cercava di coprire con vistosi riporti del residuo crine, gran compagnone e spirito d’artista, sempre pronto alla battuta spiritosa e al racconto “dell’ultima”. Una facilità di parola e il dono del saper raccontare che affascinava il giovane uditorio (non è che lui fosse molto più anziano). Insegnava disegno. Alla scuola era arrivato quando, nel corso del primo anno, il figlio di uno dei fondatori della scuola, Franco Passoni, (non ricordo se semplice disegnatore o anche progettista di uno dei modelli della Gilera), aveva mollato l’insegnamento per pesanti impegni di lavoro.
Così che il passaggio dalla semplice squadratura del foglio, alle figure geometriche, alla rilevazione dei pezzi da disegnare, disegni che dovevano essere talmente chiari da poterli costruire senza alcuna altra annotazione, alle proiezioni assonometriche, nel corso del triennio fu il suo insegnamento, senza, per questo, mai smettere di integrare lavoro a spasso verbale.
Cultore della lingua veneta ne dava ampi esempi nella recita di certe poesiole a sfondo erotico delle quali mi rimane un frammento di reminiscenza:

la bella bionda la sbate i oci
mi capiso ‘l latinoro
comincio dai xenoci
finiso dentro l’oro
… dei cavei.
Bosegato! n’ostia!…

Una semplice annotazione comportamentale, quando doveva dire qualcosa di ufficiale, cosa abbastanza comune anche per altre persone allorché, assunta la toga del maestro, iniziano a parlare “ex cathedra”: la voce assumeva il tono enfatico, la pronuncia seguiva le leggi dell’ortoepia distinguendo accenti gravi e acuti come nelle scuole di dizione, il gesto, che sottolineava la parola, ampio e cadenzato… ma durava poco ritornando subito dopo al ritmo normale.

La consegna dell’attestato ai primi diplomati e l’intermezzo del filosofo Monopoli

Nel 1950, giunti alla conclusione del primo triennio, si ritenne fosse necessario celebrare degnamente la consegna dei diplomi ai primi “licenziati”. La cerimonia, organizzata presso il cinema “Centrale”, alla presenza del Consiglio direttivo, degli insegnanti, di personaggi ufficiali venuti da fuori, di un un buon gruppo scolari e da una sparuta partecipazione della popolazione, da un discorso all’altro, nei quali ognuno disse la sua sulla necessità dell’istruzione, arrivò alla chiamata sul palco dei diplomati e alla consegna dell’attestato.
Per la conclusione prese la parola il filosofo Monopoli che improvvisò un bel discorso sulla necessità dell’istruzione quale mezzo per formare le coscienze e alla fine, emozionato, trasse da tasca un pacchetto che conteneva le copie della pubblicazione “Il Vialetto” affidandolo in custodia al presidente, cavalier Mortarino, perché fosse conservato quale testimonianza degli sforzi dell’”Intellighenzia” arcorese di elevare la cultura del popolo.

Digressione:
Qualche tempo dopo finita la guerra era stata fondata in paese un’associazione di “liberi pensatori” che, al di fuori di ogni credo politico, anche se leggermente orientati verso i liberali, radunava le menti eccelse. Da questa associazione nacquero incontri, conferenze, recite, e perfino un mensile che pubblicava articoli di storia patria e storia paesana, letteratura in lingua e dialettale, politica e curiosità locali. Ma, come fu come non fu dopo pochi numeri cessò la pubblicazione; non si sa se furono una nemmeno tanta velata resistenza opposta dall’ufficialità civile e religiosa, la difficoltà a sostenerne il peso economico o la defezione dei redattori a condurla a prematura morte.
Bisogna però dire che almeno un risultato, durato quasi trent’anni, questo gruppo culturale l’aveva ottenuto, infatti, la fondazione della Scuola di cui si celebra oggi la memoria è dovuta proprio a loro.
Tornando al “Vialetto” il cui titolo, nel vissuto arcorese del tempo, identificava l’attuale via Giorgio Enrico Falck, (in dialetto “ul Vialet”) via privata, regolarmente chiusa nei giorni festivi da una sbarra, con una storia particolare che risale alla prima metà dell’Ottocento, alla quale si è accennato in una delle pubblicazioni del notiziario comunale. La scelta del nome fu presentata in un articolo del primo numero con il tono di un racconto rievocatore di nostalgia dei tempi andati, in quanto il luogo era ritenuto il punto di ritrovo degli incontri tra innamorati che lì vi si davano i primi appuntamenti dai quali poteva iniziare un più serio rapporto.
Fine digressione si riprende:
Mortarino prese la raccolta, rammentando il tempo delle pubblicazioni ne lodò l’iniziativa e promise che sarebbe stata inserita nell’archivio della scuola a memoria futura. L’archivio della scuola, come si disse, è stato totalmente demolito: del “Vialetto” si è persa ogni traccia e presto se ne perderà anche ogni memoria.

Giulio Cantù – insegnante di officina

Conosciutissimo, maggiore degli scolari di pochi anni, a lui ci si rivolgeva col tu o con l’ironica qualifica di professore.
Grande e grosso con una voce armoniosamente baritonale contrappuntata dal rotacismo (la erre francese) che strascicava come una sorta di gargarismo vezzeggiante nel vibrare della gola.
Era uno dei vari Gileristi che si alternavano nella scuola come insegnante di officina. Quali funzioni avesse nell’ambito dell’organizzazione dello stabilimento non so.

scuola 3
Il mio primo incontro fu un mezzo scontro, una specie di esame analitico al quale fui sottoposto particolarmente sotto il profilo professionale, per il fatto che, a richiesta di quale lavoro facessi, avevo risposto che ero attrezzista stampista; quindi domande su ogni particolare con contestazioni e richieste di approfondimenti a non finire su ogni tentativo di risposta e infine il “voglio vedere come tiri di lima!” Detto fatto: al banco, immorsare il pezzo, prendere l’attrezzo, assumere la corretta posizione e … prima ancora di iniziare … un fiume in piena travolge ogni buona volontà. Stai oscillando come una barca! sì! no! Infine si accorge che sta esagerando, scuote la testa mi pianta e si allontana…