MESE DI APRILE

MESE DI APRILE

Questa rubrica trae spunto dalla descrizione di quelle “santità” che hanno avuto una particolare venerazione in Brianza. La loro ricorrenza, oltre ad una valenza religiosa, aveva un differente, se non ancora più importante valore nello scandire lo scorrere quotidiano della vita dei contadini, calendarizzando quelle attività che segnavano l’annata dei lavori della terra. Un connubio portatore altresì, di una fioritura di proverbi altrettanto pregni di cultura contadina, sia intesa come “saper fare”, ma sopratutto come solidità morale nell’attribuire un valore concreto agli accadimenti della vita.

Usanze, Santi, tradizioni

Questo mese d’aprile non sarà come tutti gli altri passati, la situazione emergenziale che stiamo vivendo lo condizionerà in modo importante. La ricorrenza della Pasqua, che come avevamo annunciato cade nel mese, sarà vissuta come un “unicum”, che ricorderemo per anni, nella speranza che questa “unicità” possa restare tale.

Una carrellata, come di consueto, con i proverbi che Sandro Motta ci elargisce dal suo “Del tecc in su”. L’attesa dell’acqua è irrinunciabile, nel mondo contadino lo era ancora di più. Dopo il marzo che se era stato asciutto e  ventoso aveva favorito il futuro dei raccolti (“April piuvus, masc ventus, ann frutus”) ora aprile deve essere all’insegna di “Giove Pluvio”. 

“April aprilin, tutt i dì un bel! gutin “. “April che pioev el fà gross i coev”. “April el ghe n’ha trenta, ma s’el piuvess trentùn, ghe faria maa a nissùgn”.

Il consiglio è poi di fare attenzione e non lasciarsi prendere troppo dall’euforia della nuova stagione dunque in un alternanza tra il bello e il brutto tempo:“April un dì el piang e un dì el rid” è prudente stare coperti, “April trà foera gnanca un fil” il rischio di un malanno è dietro l’angolo “April aprilett, tùtt i dì un fregiurett”

Osservando il tempo meteorologico della settimana santa, quest’anno Pasqua sarà il 12 aprile, sarebbe stato possibile fare delle previsioni molto mirate, “Se gh’é ul suu su i uliv te gh’heet l’aqua su i ciapp” (la domenica delle palme è col bel tempo? Attento a cosa ti aspetta il giorno di Pasqua) e ancora,  “S’el pioev ul dì de Pasqua, pùssee uga che frasca”, buone prospettive per l’ancora molto lontana vendemmia, ma così è.

Aprile segna un ritorno alla natura e ai lavori dei contadini con questa nuova raffica di proverbi, mai fini a se stessi, ma funzionali alla vita delle cascine di quel tempo.

Sempre il Motta ricorda il mese per la particolare “vitalità” intesa proprio come potenzialità riproduttiva di cui la natura è capace in questo mese. “I fiur vann piantaa d’Aprii, perché ghe fiuriss anca ul manigh d’un badil”. 

Accertato che il manico del badile sia rigoglioso di fiori, l’attenzione va alle piante che in questo frangente vanno innestate: “A San Zen (12) insediss pomm e scires a ciel seren”  “Per San Terenz (10) i vit hinn insedii cunt i indulgenz” operazione che va fatta con la massima cura, anche perché verso la fine del mese, bisognava fronteggiare un improvviso ritorno delle basse temperature, “Tra San Giurgett (24) e Crusett (3 maggio) gh’é semper un invernett”. A questo punto due erano le attenzioni su cui i contadini si focalizzavano; la vite “A San Giorg dà voelta ul tros” (sboccia il tralcio), e ancora più critica era la paura del cambio di temperatura per i bachi da seta il cui allevamento aveva inizio in questi giorni di fine mese.

“Ul lesignoe el porta nin”, foto di Luca Fantoni

Nello scandire il calendario dei lavori dei campi, la consuetudine di quel tempo passato, di ricordare il santo che era celebrato in quel giorno e non la semplice data numerica ecco:  “A Sant’Isidor (4) senza vent zappa ul furment”. Un intervento, che oggi è demandato alla “chimica”, mentre un tempo diserbare la coltura di grano era un intervento manuale, zappa e mani, tenendo presente che era meglio evitare questi lavori nei giorni ventosi. 

Al proposito di questa attività il Motta ricorda come ai tempi in cui alla mezzadria, (divisione in parti uguali dei prodotti della terra fra proprietario e mezzadro)  si erano sostituiti i cosiddetti “contratti misti” ancora apertamente sbilanciati a sfavore dei contadini, quando ci si riferiva al “ficc e furment”, un tipo di contratto, dove in cambio dell’alloggio il possidente chiedeva l’intero raccolto di grano, lasciando ai contadini gli altri prodotti della terra. In questo ambito l’operazione di diserbo del frumento, detta appunto “zapà ul furment” era a carico delle donne, che prestavano gratuitamente questo servizio in cambio della possibilità di spigolare una volta fatto il raccolto “de catà su dopo ‘vé segaa”.

Come ricorda anche Flavio Ronzoni, un’altra attività impegnava il contadino in aprile, la semina del granoturco che comunque doveva concludersi nei primi giorni di maggio. Mariarosa Galimberti riporta: “…la festa della Madonna del Bosco, che cade il 9 maggio, segnava il termine entro il quale il granoturco doveva essere seminato; prima de la fésta de la Madona del Bosch ul formenton al gh’à de vès giò. A Casatenovo e a Lomagna gli informatori parlano del periodo pasquale, se la Pasqua non era troppo bassa; a Cernusco Lombardone di fine aprile”.

L’operazione d’aratura, che precede la “semina del granoturco”, in una foto di Giuseppe Croci scattata nel 1954

A proposito del granoturco come sappiamo introdotto in Europa dopo la scoperta dell’america fu dapprima usato come pianta ornamentale e quindi dedicato all’alimentazione. nella Lombardia in funzione dei diversi dialetti ha assunto nomi differenti ricordiamo nel milanese e comasco l’appellativo “formenton” con le varie declinazioni fonetiche, ad indicare impropriamente una qualità di “grande frumento”. Appena oltre l’Adda nella bergamasca la storpiatura del nome di una pianta abituale della zona, quindi “melgon o melgot” da melga melica. Ancora una curiosità nell’appellativo “carlon”  attribuito verso Trezzo, per sottolineare il sostegno di San Carlo Borromeo nella diffusione del mais.

Pur utilizzando dei semi nella riproduzione del mais i contadini erano soliti indicare l’operazione con il termine di piantare e non seminare il granoturco. Ancora la Galimberti riporta: “Partecipava tutta la famiglia allargata, composta da tre generazioni: il capofamiglia, ul regiùu, i fìgli con le mogli e i bambini. L’uomo tracciava le linee per la semina con il grande rastrello a tre denti: il rigon o restelon. Su queste tracce, spesso le donne procedevano a piantà ul fùrmenton: con il ficon o cavìc foravano la terra, ponevano i semi e li ricoprivano strascicando i piedi e schiacciando il terreno”. Un lavoro immane, tanto da far dire ai contadini che non si vedeva mai la fine di quel campo.

Granoturco appeso al soffitto, Giuseppe Croci 1980

Quello scorrere il calendari, ricordando i santi, era segnato anche da sentenze che facevano il punto sulle consuetudini degli uccelli migratori e non, ecco un campionario: “A San Ughett (Sant’ugo 1 aprile) ul stortacoll (torcicollo) el cerca i paiuchett è il momento di costruirsi il nido e va alla ricerca dei materiali necessari, come appunto le pagliuzze. “A Sant Selmin (Sant’Anselmo 21) “Ul lesignoe el porta nin” , modo di dire che indica la costruzione sempre del nido.: “A San Marzelin (San Marcellino 26 aprile) anca ul galbes (rigogolo), el porta nin”, si tratta di un uccello che arrivava per ultimo dell’Africa e si apprestava a costruire il nido.

Sempre attingendo a quanto racconta il Motta il mese di aprile era in periodo in cui chi doveva sposarsi, “i tusann de marià”, era indaffarato nei preparativi in vista della consuetudine di celebrare i matrimoni nel mese successivo, “se spusaven ul mes de la Madona” .

A fare da contraltare al matrimonio non poteva mancare a fine mesa la ricorrenza di Santa Zita (27), protettrice delle zitelle, in Brianza “mareli” al singolare “marela”.

Una categoria di persone che nella Brianza che stiamo raccontando avevano un ruolo definito e preciso che a volte segnava anche una sorta di emarginazione, nonostante contribuissero spesso alla vita sociale della comunità. Questo proverbio ne è testimone, “A Santa Zita anca la pola, cumé la marela, la fà la pita” un proverbio che riferisce della custodia della prole altrui, pur non essendo la madre naturale.

Il Motta riferisce: “I mareli” erano le donne che in cascina dovevano faticare sempre, senza le attenzioni ed i periodi di relax che avevano le donne sposate o le stesse ragazze da marito.