Il baritono Felice Schiavi
No, vecchio, t’inganni… – … un vindice avrai.
Sì, vendetta, tremenda vendetta.
Di quest’anima è solo desio… Di punirti già l’ora s’affretta, che fatale per te suonerà. Come fulmin scagliato da Dio , il buffone colpirti saprà.
Il cavallo di battaglia del baritono che è morto mercoledì 4 settembre, era senz’altro quel “Rigoletto” che abbiamo voluto proporre nell’aria forse più nota del “Si, vendetta, tremenda vendetta”, interpretato dal baritono arcorese e dalla soprano Andrée Esposito. Ci fermiamo qui con l’ufficialità, lasciando le rievocazioni artistiche di Felice Schiavi ai canali specializzati, che sapranno senz’altro dare il giusto risalto al grande baritono.
Vogliamo invece riandare a quando il baritono, non aveva ancora iniziato a calpestare i grandi teatri lirici del mondo, e la sua innata passione e bravura era ancora nascosta, o appena iniziava a manifestarsi. Tonino Sala nel darmi la notizia della scomparsa ha voluto girarmi alcune sue note stilate qualche tempo fa. A mia volta le propongo in questo spazio, sicuro che saranno d’interesse non solo per gli arcoresi e gli appassionati del “bel canto”. Un pizzico di vanità nella certezza che nessuna biografia del grande baritono, possa riportare questi esclusivi ricordi.
Felice e la musica
di Tonino Sala
Classe 1931, la predisposizione naturale per la musica, dopo qualche avversità felicemente superata, ne segnò il destino. Sono epiche le sue sedute in bagno dove, poco più che ragazzino, a piena voce dava sfogo ai primi acuti; il suo pezzo forte era una canzone resa celebre da Gigli: “Mamma”, nella quale la voce già potente nell’interpretazione singhiozzante era toccante.
Per la verità in cortile la musica era un po’ di casa. Sia prima che durante la guerra, periodicamente, capitava li, un tipo originale. Segaligno, moro, meridionale, ben vestito, paglietta in testa, un tipo alla Don Lurio. Chitarra a tracolla custodita in una fodera di stoffa nera, arrivava in bicicletta, molletta ai calzoni per evitare impigli con la catena:
…smonta, appoggia il mezzo al tronco di uno dei numerosi pini, sgancia la molletta, si riassetta, spoglia lo strumento e lo impugna facendo passare la cinghia sulla spalla poi girando nel cortile dà saggio della sua arte cantando il repertorio canzonettistico dell’epoca; una voce armoniosa, un po’ metallica con un’articolazione da fine dicitore. Si raduna la ragazzaglia e alle prime note ai balconi e alle finestre si affaccia tutto il campionario umano del cortile. Finito il giro musicale, qualcuno applaude, alza la testa ai piani alti, gira gli occhi all’intorno e mentre con la sinistra pizzica ancora qualche nota dalla chitarra, con l’altra tende la paglietta a ringraziare e a chiedere e raccogliere quanto il buon cuore degli ascoltatori offre…
Alla fine di uno di questi concerti estemporanei, affacciati al balcone della zia, al secondo piano, vi erano la Carla Panceri col moroso, il quale si sbracciava ad applaudire mentre faceva piovere una gragnola di monete metalliche sulla testa del concertista. Il “troppa grazia sant’Antonio” cercava di ripararsi la testa con le mani e con la paglietta per evitare bernoccoli mentre teneva d’occhio i dindi che ruzzolavano un po’ dappertutto prima che qualche “longa manus” li facesse sparire. Non si sa se fu l’arte del menestrello a suscitare nel moroso quell’impulso caritatevole o la volontà di farsi vedere grande; sembrava una scena preparata da tempo alla quale si era dato corso con perfetto tempismo.
Per qualche tempo il cortile fu frequentato anche da una coppia di musicisti: un cieco che cantava romanze con voce da tenore accompagnato da un socio con chitarra: «… questa volta m’hai chiuso la porta signora fortuna…»
Altri richiami musicali venivano anche dalle pianole che collocate su carretti trainate da docili asini giravano lungo le strade del paese e nei cortili sempre seguite da un codazzo di ragazzini incantati al vedere i tasti della pianola muoversi da soli e, mentre il conducente ridava la carica allo strumento girando la manovella, la famiglia, piattino alla mano, tirava di scherma.
Scuola di musica era anche quella tenuta dall’Antonio Giardini, che temperava le aspirazioni violinistiche di alcuni ragazzi, elogiandone o deprecandone le qualità. Ricordo alcune scene di gelosia tra gli allievi degenerate in reazioni isteriche, quando l’elogio del maestro riconosceva nelle suonate “a orecchio” che Felice cavava dal suo “triquartino” (chissamai dove l’aveva trovato) i prodromi del genio musicale che sarebbe divenuto. E, nella memoria, rivedo Felice impettito, a testa alta, recitare per me e per se stesso la completa parte del concertista: farsi da solo presentazione dell’artista e del pezzo da eseguire, l’ingresso in scena, la finta della messa in tensione dell’archetto, l’accordatura dello strumento, l’esecuzione, l’applauso, i reiterati inchini e la richiesta del bis. Era già un bel personaggio! Il signor Antonio suonava anche il mandolino, il banjo, la chitarra, la fisarmonica e la batteria, e via via nelle serate primaverili ed estive del primo dopoguerra non mancava di farci sentire qualche esibizione che attirava alla danza qualche coppia.
Si sa che la possibilità di fare musica insieme è un motivo aggregante fortissimo e bastava che nelle pause del lavoro qualcuno tirasse fuori uno strumento che subito si formava un’orchestrina. In cortile c’era anche il Fulvio Lodigiani che suonava clarino e sassofono e dai cortili intorno arrivavano poi i Meani con mandolino e chitarra e il concertino nasceva spontaneo. Il Fulvio suonava anche in altre aggregazioni e una notte d’estate con alcuni suoi compagni orchestrali improvvisarono un concerto che ebbe il potere di radunare l’intero cortile e zone adiacenti fino allo schiarire del giorno.
A contribuire al richiamo musicale si poneva anche mio padre, maestro di armonica. Aveva un garzone, Ezio, grande virtuoso di fisarmonica, e ogni tanto se lo portava a casa, e lì sul terrazzino davanti all’uscio Ezio faceva saltare le note in trilli e vibrati che attiravano in men che non si dica una platea di ascoltatori.
Ma, ritorniamo a Felice. La stagione balneare cominciava con i primi caldi di maggio e “pedon pedoni” la minuta truppa del cortile si sorbiva i due chilometri di strada per andare al Lambro. I luoghi adatti per esercitare il nuoto erano un paio: sulla costa del Taboga, a bordo dei prati del Rapaszin, e alla Punta, trampolino di salto per i tuffi, quasi a perpendicolo del ponte ferroviario della linea Monza-Molteno (il nome gli derivava dal cuneo di separazione tra il corso del fiume e la presa d’acqua della roggia molinara). I pali dell’armatura del ponte, rimasti infissi nel letto del fiume poco sotto il filo della corrente, segnalavano il progresso nella pratica del nuoto, nel linguaggio corrente: …son rivaa al segond palon… Da noi si imparava a nuotare ancora prima che a camminare: affidati ai fratelli maggiori per la custodia i pargoletti venivano trasportati a dorso fino al fiume dove tra un gioco e l’altro cominciavano a sguazzare fino ad acquisire senza maestri la tecnica del nuoto. Oltre al nuoto nel gruppo vi erano dei provetti specialisti di tuffi (in dialetto tuffarsi = fa i cò’n giò), sia con rincorsa che da fermi, ma il massimo del coraggio era di salire sopra il ponte della ferrovia e da lì tuffarsi nel fiume; era una specie di sfida che determinava l’assegnazione di una sorta di brevetto verbale. Oggi salto, diceva Felice, oggi salto ma… la determinazione ad eseguire l’esercizio si procrastinava. Venne finalmente il momento della decisione, ma per lui l’esecuzione doveva essere qualche cosa di superiore al normale pertanto, assistito da due ragazzi si mise in piedi non sul piano del ponte ma sopra lo stretto parapetto della ringhiera e da lì giù a capo fitto nell’acqua per riemergere subito dopo esultante per l’impresa compiuta.
In quei tempi la moda di ribattezzare tutte le persone grandi e piccole con soprannomi era imperante e, oltre alle deformazioni di nomi e cognomi, bastava una inezia nella morfologia fisica che caratterizzasse l’individuo per generare l’epiteto. Felice era affetto da leggero strabismo e Cicalocchio fu uno dei soprannomi che gli furono affibbiati; l’altro soprannome, che lo mandava letteralmente in bestia, e per il quale non mi è possibile ricordare il motivo dell’invenzione, era Broccoli. Siccome era fisicamente in grado di farsi rispettare a livello della ragazzaglia coetanea, nessuno si azzardava a chiamarlo così in sua presenza. L’animosità che il vocabolo gli scatenava lo spingeva anche a reazioni avventurose. Vi era un fruttivendolo ambulante, Tom, bell’uomo, prestante, biondo, perfettamente a conoscenza della suscettibilità del ragazzo, con uno di quei carretti a pianale basso spinto a mano, sul quale esponeva le ceste degli ortaggi, girava per i cortili offrendo ad alta voce la sua merce. Quando entrava in cortile non mancava mai di urlare la provocazione fatidica: “Brocul e spinas”: il gioco si interrompeva tutti si volgevano verso il provocatore in attesa della reazione di Felice che avrebbe attaccato a pugni chiusi il fruttivendolo. Tom con calma olimpica gli poneva una mano sulla testa e si teneva lontano dal mulinare delle braccia del ragazzo. Una, due, tre volte, era diventata la recita di una pantomima a schema fisso fino a quando Felice escogitò una reazione che avrebbe convinto l’ambulante a star lontano dal cortile o a cambiare il grido di richiamo: fingeva di attaccare la persona poi girando velocemente dietro il carretto rovesciava a terra le ceste della verdura poi se la filava.
Scuola serale e Intermezzo musicale
Negli anni immediatamente successivi alla guerra era piuttosto difficoltoso per i giovani trovare un posto di lavoro. In paese vi erano alcune industrie anche importanti ma il loro campo di applicazione richiedeva personale con qualifiche che evidentemente i ragazzi disoccupati non potevano avere, non solo ma anche coloro che erano riusciti ad entrare nelle fabbriche si trovavano in condizione di doversi qualificare. Era quindi necessario disporre di corsi scolastici specifici che sviluppassero le materie proprie delle professioni presenti sul territorio: disegno tecnico-meccanico, tecnologia, matematica e officina (cioè la traduzione in pratica, manualmente e sulle macchine, di ciò che si apprendeva sui libri).
Grazie alla buona volontà di persone lungimiranti e alla disponibilità di alcune aziende (Gilera, Falck, Varinelli, Bestetti), a fornire qualche macchina e qualche tecnico a fungere da insegnante, fu possibile impiantare ed avviare la scuola che nell’autunno del 1947 iniziò il primo corso.
Il ciclo d’istruzione prevedeva dopo due anni di preparatorio, lo sviluppo di un programma, articolato in tre anni, alla fine dei quali, sostenuti regolari esami, veniva rilasciato un diploma che nelle aziende del circondario era garanzia di una istruzione professionale seria essendo curata e sostenuta da insegnanti reperiti nel mondo del lavoro. Nel corso del triennio vi insegnarono progettisti, disegnatori e capi officina della Gilera e della Bestetti, qualche serie di lezioni fu tenuta dall’ing. Varinelli
Il corso era serale, le aule erano quelle delle scuole elementari (l’attuale Olivetti), l’officina era stata ricavata in quella specie di mansarda che era servita da mensa per i bisognosi che frequentavano le elementari durante la guerra. Agli iscritti era richiesto, oltre a frequenza ed applicazione, anche il versamento di un modesto contributo mensile quale tassa di frequenza.
Vi arrivai nel 1948 – già da un anno e mezzo lavoravo a turni dal Zerbon come garzone avvolgitore di spole per i telai metallici – dopo aver scoperto che era sufficiente iscriversi e frequentare per essere esentati dai turni e avere un posto con prospettive di qualifica professionale.
Anno scolastico 1949-1950 – Intermezzo lirico di Schiavi
…tutto era nato da una provocazione quando, per rompere la tensione, nell’intermezzo tra lezione e approfondimento delle conoscenze caratteriali personali, il prof, saputo da Felice che stava studiando canto lirico, ritenendo fosse una battuta e ironizzando un po’ su questo fatto, chiarito che era voce da baritono, senza immaginare lontanamente che rischio stava per affrontare, lo invitò ad eseguire un brano per provare la verità dell’affermazione.
La sfida venne immediatamente raccolta e senza porre tempo di mezzo, il brano scelto: “O sole mio”, ebbe subito inizio nei mezzi toni dell’apertura tra il silenzio attonito degli scolari e un inizio di agitazione dell’insegnante che cominciava a rendersi conto dell’imprudenza commessa.
“…Che bella cosa na jurnata ‘e sole… “: l’introduzione che svolge il tema del risveglio del creato, dopo una notte di temporale, nella gioia consapevole dell’amore, ha un’armonia carezzevole su toni a mezza voce, poi la musica comincia ad esplodere nella luce del sole che sorge sopra l’orizzonte invadendo lo spazio e colorando l’aria, e il tono sale ad esaltare la meraviglia del nuovo giorno che si riflette nel volto dell’amata: “…ma ‘natu sole…”…
La voce spiegata nel primo acuto rimbombò nel chiuso dell’aula facendo tintinnare i vetri ed ebbe il potere di mettere in movimento il prof che deciso ad interrompere il brano balzava verso il cantante a braccia protese brancicando l’aria pronto a tappargli la bocca; ma Felice, sgusciato dal posto, vanamente inseguito, senza smettere di cantare, fuggiva tra i banchi. Nel frattempo, richiamati dal canto, gli scolari delle altre classi, insegnanti in testa, si erano ammassati nel corridoio e aperta la porta stavano invadendo l’aula restringendo le corsie di fuga dei due impegnati nel carosello. Finalmente, Felice, resosi conto che sotto la pressione dell’inseguitore non avrebbe potuto eseguire la seconda strofa, balzò in piedi sul sedile del banco e difendendo la posizione si inarcò nell’acuto finale “…sta ‘nfronte a te!” tra lo scrosciare degli applausi.
Una facilità di battuta, la coscienza di essere possessore di un valore artistico, ne faceva un piacevole compagno nelle dispute infinite sui termini dell’arte
Più avanti nel tempo, quando cominciando a frequentare il liceo musicale invitava a casa compagni di studi, dava vita a veri e propri concerti; il cortile diventava allora la succursale della Scala. Musiche e canti si diffondevano nell’aria: Canta Felice! Correva la voce e correvano dalla via, richiamati dall’armonia, gli abitanti limitrofi: il cortile diventava una platea animata prodiga di applausi.
Anche dopo aver cominciato ad esercitare professionalmente l’arte, si ebbe la ventura di poterlo ascoltare in concerti del tutto privati, arricchiti da cantanti di grido.
Aspetti, località e storia della Brianza. "Ci sono paesaggi, siano essi città, luoghi deserti, paesaggi montani, o tratti costieri, che reclamano a gran voce una storia. Essi evocano le loro storie, si se le creano". Ecco che, come diceva Sebastiano Vassalli: "E’ una traccia che gli uomini, non tutti, si lasciano dietro, come le lumache si lasciano la bava, e che è il loro segno più tenace e incancellabile. Una traccia di parole, cioè di niente".
che articolo meraviglioso, ricordi indelebili che attraversano la memoria lasciando solo dolcezza.