IL FANTASMA DELLA CA’ BIANCA

IL FANTASMA DELLA CA’ BIANCA

di Tonino Sala

Un po’ di storia e un po’ di fatti, luoghi, fantasie e fantasmi

13 Marzo 1661

Commento a un delitto avvenuto nei boschi della Ca’ Bianca riportato sui registri parrocchiali dal curato Carozzo, quinto nella successione, che ebbe in cura le anime arcoresi dal 1652 al 1684

FIG 2

Il fatto

Mille e sei cento sessantauno adì tredeci marzo

Margaritta d.a La Borghetta del luogho di Sartirana P di Briuio è stata trovata morta nelli boschi della Casa bianca Comun d’Arcor in due schiopetate et prove in quantità et è stata riconosciuta p lei dà molti e così si è portata alla Cura et adì sedeci marzo se li è dato la sepoltura

L’epoca

Il papa regnante, dal 1655, è Alessandro VII (Fabio Chigi). Arcivescovo di Milano, dal 1652, è Alfonso Litta. Il prevosto di Vimercate (capo-pieve), dal 1654, è Alessandro Brambilla. Il curato di Arcore, dal 1652, è Francesco Carozzo. Il Ducato di Milano, al quale appartiene la pieve di Vimercate, è dominio spagnolo dal 1559; il duca, re di Spagna dal 1621, è Filippo IV di Borbone. Arcore, come tutti i paesi, ha un console e/o un sindaco.

Note riprodotte dalla rete, sul “Ducato di Milano”:

Il Re di Francia e Carlo V reclamavano il ducato facendosi guerra. Quest’ultimo, rivendicandolo come feudo imperiale, ottenne il controllo del ducato e vi installò il figlio Filippo con diploma imperiale firmato a Bruxelles l’11 ottobre 1540. Il possesso del ducato da parte di Filippo d’Asburgo fu finalmente riconosciuto dalla Corona francese nel 1559, con la Pace di Cateau-Cambrésis.

Il ducato di Milano rimase soggetto ai sovrani spagnoli sino all’inizio del XVIII secolo. In questo periodo la sua capitale divenne con San Carlo e Federico Borromeo uno fra i principali centri della Controriforma in Italia. C’erano tasse sulla famiglia, sulla farina, sull’olio, sui cereali, sul vino, sulle proprietà, sulle vendite, sul reddito, sulle attività commerciali e sulla legna. Le milizie spagnole si preoccupavano solamente di reprimere i malcontenti invece che la delinquenza. Neppure i monasteri sfuggivano alla malavita, anzi lì si reclutavano i briganti a servizio di priori ed abati e spesso erano gli stessi monaci a diventare delinquenti. Il Vescovo di Milano tentò di contrastare questa dissolutezza sciogliendo l’Ordine degli Umiliati, sede della malavita dell’epoca, e diede l’autorizzazione al Foro ecclesiastico di processare gli imputati che si fossero macchiati di bestemmia, sodomia e adulterio; ma riuscì soltanto ad inasprire i rapporti tra lui e il popolo perché le sentenze del nuovo Tribunale erano ancora più dure di quelle dei tribunali governativi. Un’altra piaga fu la peste che colpì Milano nel 1576 e soprattutto nel 1630. Il numero esatto di vittime (senz’altro migliaia) è sconosciuto. Il morbo si diffuse anche per le processioni propiziatorie e per la caccia alle “streghe” (ritenute responsabili della peste): in entrambi i casi le riunioni servirono solo a peggiorare la situazione. L’economia si riprese a fatica solo dopo decenni. Dopo la peste le campagne erano rimaste incolte, fallirono molti negozi, botteghe, industrie e si perse molta manodopera.

La valutazione del «periodo spagnolo» è molto controversa. Indubitabile appare la decadenza economica che colpì il ducato, in particolare dall’inizio del XVII secolo. Occorre però ricordare che tale involuzione si manifestò – seppure con forme e dimensioni diverse – nell’Italia intera[senza fonte]. Inoltre il declino economico del Milanese, e in generale di tutt’Italia fu forte ed evidente solo dopo il 1620, ovvero dopo quasi un secolo dall’inizio della dominazione spagnola.[senza fonte] Molto influente per la percezione negativa di questo periodo fu il romanzo ottocentesco I promessi sposi, scritto da Alessandro Manzoni.

Nel proseguo del tempo, fra Spagna e Francia, con litigi ad ogni occasione possibile, si trascinava un precario rapporto interrotto da incursioni estemporanee finché si arrivò dal 1627 a una vero e proprio scontro. Lo “stato di guerra permanente” con alterne vicende durò una trentina d’anni. La fine fu celebrata nel 1659 con la“pace dei Pirenei”. Le ripercussioni del conflitto sconvolsero anche il nostro paese, Nella “Storia di Vimercate” di monsignor Cazzani è riportata integralmente una nota, tratta dal registro dei morti, che evidenzia la situazione conseguente all’invasione francese:

«Adì 18 luglio (1658) morse amazato de Francesi [Manfredo Homato], quali avendo passato il fiume Adda [a] Cassano la domenica mattina precedente senza altro ostacolo, ma non senza sospetto di qualche intelligenza con lo Spagnolo, che si era addossato di custodire quel posto, sotto il comando del duca di Modena, capitano generale del re di Francia, il sudetto giorno saccheggiano barbaramente Vimercate senza rispetto né alle chiese né all’altari, rapirno di suppellettili e massaritie di casa e forniture di botteghe e cose di chiesa, il valore di più [di] dodeci mila scudi e quasi il simile fecero con l’altre terre della pieve e molte altre, dove amazarnodelli paesani e ne fecero molti prigioni, violarno le donne, profanarno delle chiese, molestarno l’ecclesiastici, rubarno li voti sacri, dispersero le reliquie et Olei Santi, conculcarno il SS. Sacramento etc., et in somma un esercito formato da ladri et sconsencrati sotto il comando d’un principe desperato, assistito d’un ministro appassionato [prima aveva scritto indiavolato] benché cardinale [Giulio Mazarino] che corruppe li sensi d’un re giovane [Luigi XIV] et abusò la soverchia cortesia d’una regina vidua e giovane [Anna d’Austria, vedova nel 1643 di Luigi XIII], mise in scompiglio tutto lo Stato e città di Milano et intimorì li comandanti e populo tutto, che smarirno la forma di reggere et di ogni provisione per esistere, desperandoafatto del loro caso, di modo che pareva il fine del mondo, e ciascuno era si spaventato che ad ogn’hora si fuggiva nemine proseguente et timebaturetiamubi non erattimor etc., morse dico Manfredo Homato d’anni 70 et il 19 detto, esequiato da duoi curati della pieve et canonico Grattarola, fu sepolto in S.M. [Santa Maria, il Santuario]».

Arcore appartiene, sia per il civile che per il religioso, alla pieve di Vimercate, feudo dei Secco-Borella, subentrati per nomina ai De Capitani nel 1475. Il feudatario esercitava anche una serie di diritti che comprendevano l’amministrazione dei primi gradi di giustizia civile e penale, oltre l’incasso di dazi gravanti su alcuni generi alimentari, tra cui pane, vino, carne.

L’ultima pestilenza si è esaurita da una trentina d’anni.

L’economia arcorese dipende totalmente o quasi dall’agricoltura. Il territorio, oltre alle ormai ridotte proprietà comunali e ai consistenti residui medievali che le varie congregazioni religiose possiedono ancora in paese, derivati da lasciti, dotazioni e sagge amministrazioni, è ripartito fra poche nobili famiglie (Visconti, Simonetta, d’Adda, Durini) e qualche altro arricchito che sta cercando di diversificare gli investimenti.

Il luogo

“…nelli boschi della Casa bianca Comun d’Arcor…”

Boschi? … verrebbe da chiedersi in quel tempo dove fossero posti in quanto dalla nota, abbastanza generica, non è possibile dedurre collocazioni specifiche … per avere una visione chiara delle colture nelle terre della zona bisognerà aspettare ancora una sessantina d’anni ed è alla rilevazione generale del 1721 quella alla quale possiamo fare riferimento e  forse da qui, è possibile avere qualche indicazione sui “boschi” nei dintorni del luogo, in particolare la parcella rilevata e accatastata come “Bosco di roveri”, dà un’idea precisa di come potevano essere a quel tempo. Ci sono altre analogie di luoghi limitrofi nei quali, più o meno ancora in quell’epoca, sono indicati varie collocazioni di boschi: sui confini delle circoscrizioni amministrative dei paesi, lungo le sponde di rogge e fiumi, oppure come delimitazioni di proprietà e anche di questi si trovano residue tracce nella rilevazione catastale del 1721, senza dimenticare che la natura di questi suoli fra le colline e il Lambro, generati prima dalla evoluzione post glaciale (diluvium e alluvium) e dalle esondazioni del Lambro poi, rimasti sassosi e poco fertili, almeno fino alla fine del ‘600, induceva a mantenerli allo stato originale di boschi di brughiera da adibire a pascolo e alla produzione di legna da fuoco o d’opera.

titolo

 

Per illustrare le descrizioni e capire meglio di quali luoghi e in che posizione si trovano, si ricorre alle mappe custodite all’ Archivio di Stato di Milano, note come “Mappe di Carlo V”, o anche, “Mappe Teresiane”.

La rilevazione fatta sul campo in presenza di testimoni del luogo da parte di un agrimensore specializzato, ha generato una serie di fogli poi riuniti a costituire un unicum di grande dimensioni (183 x 197 cm) da cui fu poi ridisegnato il territorio dividendolo in 19 fogli.

Le immagini che seguono, stralciate dalla mappa di prima rilevazione del 1721, di cui si è detto, raffigurano: la prima, l’angolo del confine sud-ovest del territorio arcorese con la riviera del Lambro come limite a un lato, sul cui estremo è posto il luogo “Ca’ Bianca”, case e terre.

1722 – Fra i terreni adiacenti al luogo, all’epoca della rilevazione catastale in maggioranza di proprietà delle “Monache di S. Paolo di Monza”, come si vedrà poi dal “Sommario”, figura al numero 228 anche un bosco che si può vedere rappresentato nella seguente immagine

che descrive un settore della zona. I prossimi particolari ne consentiranno un migliore apprezzamento. Intanto, confrontando questa immagine con la precedente risulta evidente che una parte del territorio, all’atto della rilevazione del 1721, attribuita al Comune di Arcore, nella riproduzione ufficiale del 1722 è passata a Villa San Fiorano, non si può dire se fu un originale errore di attribuzione o un aggiustamento successivo.

La realtà è che ancora oggi la chiesetta, che al tempo non esisteva, si trova in una condizione di extraterritorialità. Probabilmente, prima di questa, edificata dai Buttafava, esisteva un luogo di culto inserito nel fabbricato originale, testimoniato dall’affresco (una natività), forse quattro-cinquecentesco, il cui residuo, mal salvato, dà un indizio di datazione sull’esistenza della “Ca’ Bianca” e sulla vita che vi si svolgeva intorno. D’altra parte la presenza ancora notevole di proprietà delle Monache di san Paolo di Monza potrebbe indicare qualche cosa in più del semplice possesso del quale non è identificabile l’origine, anche se, vista la storia dei Simonetta si potrebbe pensare a una cessione.

Il bosco, compreso fra le strade degli “Spaditt” e del “Molinetto”, originariamente censito con le parcelle 227 e 228 per un totale di pertiche 79 e tavole 4, appartiene per un piccolo settore a Paolo Bosso (Bossi), che è anche proprietario del Molinetto (233), e per il resto alle “Monache di San Paolo”. Non è da escludere che al tempo di cui si parla, un’ottantina di anni prima, l’estensione boschiva fosse ben più ampia in quanto è storico che gli interventi di riduzione a coltivo di parecchie brughiere avviene successivamente a questo periodo.

Per il “Molinetto” è disponibile la nota della rilevazione dei “Beni di seconda stazione”, redatta quando cessate le guerre finalmente si poté completare la nota catastale, dalla quale risulta al numero 296 (ex 233): “Casa con Molino chiamato il Molinetto”, proprietà del “Sig. Conte Bossi” di cui è “Livellario” “Magno Gio. qm Ambrogio” per la quale paga un affitto di lire 280.

Qui sotto è la specifica delle parcelle (Sommario) inerenti al foglio XI di mappa pubblicato

Fra i “possessori”, risulta anche L’abate Serponti, notevole possidente di terreni e cascine anche nella vicina Velate, che in questo luogo è proprietario della casa e dei terreni della Cappelletta, che cederà in seguito alle Monache

Nella realtà del tempo, l’insieme di terreni e fabbricati che oggi sono identificati come “Ca’ Bianca”, costituivano due denominazioni distinte come ben risulta nella Mappa:

Il nome “Capeleta” deriva dal fatto che in testa all’appezzamento sorgeva una minuscola edicola: nel dialetto locale “Capelèta” (nella tradizione non è arrivato a chi fosse dedicata). Mentre nella riedizione ufficiale il manufatto non è riportato, in quella originale è posto ben in evidenza. Naturalmente cercarne le tracce oggi sarebbe un lavoro da archeologi specializzati.

Le strade

L’accesso alla località sia dal paese che dal circondario è ben evidenziato nel tracciato catastale da una strada intercomunale che attraversa il margine del territorio arcorese fra La Santa e Peregallo – quella che in pratica collegava fra loro tutti gli impianti di molitura e follatura che, sorgevano sulle rive del Lambro, dai “Molini delle Grazie” di Monza, su su fino ai mulini di Briosco e oltre.

Si è posto in evidenza Peregallo e la follatura: là dove, poco oltre il confine, nei pressi del ponte sul fiume che immette al territorio di Biassono, a margine della roggia molinara, sorgeva una modesta filatura di seta, quella che poi in seguito sarebbe diventata “La Fulèta”, e questa era la strada che, oltre agli “andà e rivieni” dei carrettieri al servizio dei mulini, le operaie provenienti dalle zone di cui si è detto, percorrevano, zoccoli ai piedi o addirittura a piedi nudi nella stagione propizia e visti gli orari di lavoro nei tempi invernali, al buio, forse leggermente schiarito da lanterne sorrette a mano.

Da questa strada residui di antichi sentieri interpoderali disposti a ragnatela accedevano ai campi, oltre a due vere e proprie vie che univano il paese alla frazione: una diramando dal “Sentierone”,  quasi parallela, sbucava direttamente all’incrocio della Cappelletta; l’altra, dalla via che principia in paese, poco oltre la cascina “Stallone”, per Peregallo, contornava il San Martino, proseguiva poi per il Lambro incrociandola poco prima della strada per il Molinetto. Altre interpoderali vi confluivano dai tracciati che risalivano alla centuriazione romana, citando ad esempio, quelle che da Oreno, Concorezzo, il Bruno, San Fiorano, e La Santa arrivavano ai mulini arcoresi e al ponte di San Giorgio al Lambro. Anche una specie di “alzaia” percorreva quasi interamente le sponde del Lambro.

Ancora una nota riguarda quel torrentello che originato dal piano di Lesmo-Camparada per vallette più o meno accentuate, convergeva nello scarico della Valle del Lupo e da qui, forse al tempo di cui si parla, attraversava direttamente il piano seguendo la Strada del Vignone per sfociare, parallelo alla via del Molinetto nel Lambro. Qui, un sia pur modesto ponticello, doveva attraversare la strada principale all’altezza della svolta per il mulino.

Lo stato delle strade dell’epoca e la loro conservazioni erano affidate come servitù prediali ai Comuni e da questi imposte alle famiglie residenti in proporzione ai nuclei che le formavano.

La vittima

“…Margaritta d.a la Borghetta del luogho di Sartirana…”

Non c’è molto da dire sull’identificazione. “La Borghetta”? Sembrerebbe un soprannome o un cognome: Alborghetti??, presente nella zona del meratese, alterato forse, dalla deformazione dialettale. Non è da escludere, che il curato per addolcire una qualifica un poco più pesante, abbia mascherato ben altro epiteto traducendo in lingua il termine dialettale che vezzeggiando ne qualificava la professione . Un breve inciso:

il Cherubini: “Vocabolario Milanese-Italiano”, nel ventaglio delle declinazioni inerenti al termine “porch” (porco) cita anche “porchetta” senza precisarne il senso che nella terminologia dialettale arcorese, anche se leggermente deformato nella pronuncia, è ben noto come denominazione per identificare le persone di “facili costumi”: purcel, purceleu, purcon, purcelon, purcascion, naturalmente comprese le terminazioni femminili.

Qualche ipotesi sarebbe forse possibile facendo ricerche nei “Libri” parrocchiali di Sartirana, spulciando nei libri dei battesimi, difficile senza alcuna determinazione temporale, sperando inoltre che le Margaritte non siano poi molte, così come risultino poi presenti gli Alborghetti. Potrebbe anche essere che il curato Carozzo avesse mandato al suo collega di Sartirana la notizia del delitto e che questi ne avesse riportata la registrazione sul “Libro dei morti”? L’indagine è necessaria se non altro per tranquillizzare lo spirito di ricerca che anima l’intera faccenda. Si è cercato di coinvolgere l’archivista della parrocchia di Sartirana ma la risposta, essendo la parrocchia fondata post ‘900, è stata negativa. Al tempo faceva riferimento a Merate che sentito ha preso tempo essendo il loro archivio in ristrutturazione … speriamo?

Eppure era nota:

“…ed è stata riconosciuta per lei dà molti…”

Oltre al soprannome, nient’altro. Domande come  “chi fosse”, età, aspetto, condizione economica, professione, dimora, non trovano risposte. Così come le infinite domande che emergono, tipiche “dei perché” e “dei percome” proprie dell’inchiesta nell’indagine giudiziaria. La vittima evidentemente era in paese da qualche tempo, il fatto che fosse stata riconosciuta, anche senza poter specificare da chi, significa che qualcuno incontrava o frequentava. Più difficile sapere dove e come viveva? Quale era il motivo della sua permanenza in paese? C’era qualche legame fra Arcore e il suo paese di origine? Parentele, rapporti di dipendenza signorile? La località Ca’ Bianca era il suo luogo di residenza? Presso chi? Oppure, lì vi si era recata per un appuntamento o vi si trovava a passare per caso, o ancora, ammazzata in altro luogo, poi  trasportata lì, abbandonata o nascosta?

Il delitto e il mezzo

“…è stata trovata morta…”

“…con due schiopetate et prove in…”

Qui si allunga l’elenco delle domande che rimangono per noi, senza risposta. Per constatare il fatto ci sarà stata certamente un’inchiesta giudiziaria completa di verbali, che chissà dove sepolti in qualche “filza”, attendono il giorno della resurrezione. Anche qui si tratta di indagare dove finirono queste documentazioni e pazientemente cercare. Alla sintetica generica descrizione del fatto, manca naturalmente, anche il quando, il come e il chi. A quando risaliva il misfatto? Dove era posto il cadavere, sul bordo della strada o nel folto del bosco e in quali circostanze, lo si trovò? La stessa mancanza vale anche per le “due schiopetate”, nessuno aveva sentito niente? La traccia fu costatata in un secondo tempo, dopo l’esame autoptico, che avrebbe dovuto indicare anche un approssimato tempo del delitto. Dal ritrovamento alle esequie passano un po’ di giorni, tempo più che sufficiente, per quanto necessario appurare, relativamente alle cause e alle modalità della morte.

L’organizzazione della giustizia

Creato in epoca ducale, il Capitano di giustizia, membro del Consiglio segreto e organo consultivo del Governatore, conservò anche in epoca spagnola la primaria funzione di giudice criminale e di tutore della sicurezza pubblica, soprattutto contro briganti e banditi.

Le Nuove Costituzioni del 1541 ribadirono la giurisdizione sui crimini commessi nella città di Milano e nei borghi e Terre compresi entro un raggio di 10 miglia, e gli riconoscevano inoltre l’autorità di giudicare i reati avvenuti nei territori non compresi entro tale cerchia, per i quali era prevista la pena capitale, la confisca dei beni, il mandato di cattura, purché il suo intervento non fosse già stato preceduto da quello del giudice criminale locale.
Al Capitano, come giusdicente, era subordinato un vicario, dottore in diritto civile e penale; come funzionario di polizia, un luogotenente con tre bargelli, ciascuno dei quali doveva avere alle proprie dipendenze almeno dodici sbirri.

Quindi si dovrebbe ritenere che qualcuno si mosse nel tentativo, chissà se riuscito, di far luce sulla vicenda, certo che se vi furono implicati i piani alti della società fu solo una perdita di tempo.

“Schiopetate”. La storia delle armi da fuoco a metà ‘600 era già avviata da oltre un paio di secoli e si era anche evoluta nella produzione di armi, che pur nella loro relativa primitività, sia nell’impiego per la caccia che per la guerra, avevano dimostrato la loro efficacia. Ma a quel tempo, in paese, chi possedeva armi di questo tipo? È storico che ci fossero assaltatori da strada, ma qui, chi assaltare e per cosa poi? È altrettanto storico che i paesi erano tenuti ad alloggiare e mantenere birri, bargello e soldataglia di passaggio in proporzione alle capacità ricettive e alla contribuzione fiscale (imposta del sale); d’altra parte era appena terminata l’incursione francese che anche nelle nostre zone aveva seminato furti e distruzioni e potrebbe essere che parte degli armamenti fossero stati fraudolentemente contrabbandati e scambiati contro valori o merci. Inoltre, come ben raccontano il Verri nella sua “Storia di Milano”

“…È però da confessarsi che i tempi erano convenienti per simili violenze; e i nobili in ispecie, resi brutali dall’ignoranza, invasi dalla boria spagnuola e degradati dalla prepotenza valorosa de’ loro avi, eransi abituati alla prepotenza facinorosa, che col mezzo di mani mercenarie procacciasi comoda e senza pericolo la vendetta, la quale infame costumanza si mantenne in vigore fin oltre la metà del secolo scorso…”

Il Manzoni nel suo romanzo, nel quale non manca la nominazione di pistole, archibugi e moschetti, scrivono che vessazioni e soprusi operati dalla pseudo nobiltà, direttamente o a mezzo di “bravi”, in quel tempo erano all’ordine del giorno. In realtà non si può dire nulla, rimane il fatto nudo e crudo che attende la luce di una documentazione che chissà mai possa venire a galla dal calderone del tempo.

Che ci fosse o meno nobiltà, plebe o sbirraglia coinvolta nel delitto richiede comunque un accenno alla costituzione del Paese, che come parrocchia, comprende anche gli extra-territori di Bernate e Ca’ di Lesmo; stimabile in quell’epoca, trent’anni dopo l’ultima pestilenza, attorno alle 650 persone. (Nell’anno 1661 sono stati impartiti 38 battesimi, celebrati 6 matrimoni e sepolti 27 morti). Il paese è composto da un centinaio di case più o meno aggregate in corti e in buona parte dislocate in frazioni collocate verso i margini del paese.

Poi, senza poter affermare che qui risiedano i responsabili, si dà un’occhiata agli abitanti della zona interessata al delitto. Siamo sul confine sud ovest del paese, guardandoci in giro troviamo i Simonetta che dal 1454 possiedono il San Martino, case e il territorio che dal piede delle colline, a sud-ovest, arriva per un lato al Lambro e per l’altro alla antica via chiamata “Il Sentierone”. Secondo le rilevazioni degli “Stato d’Anime”, fin oltre la metà del ‘600 il clan si spartisce le proprietà: Molini, case e terre che sconfinano anche nei paesi vicini. Nel territorio di Peregallo, lungo il Lambro, per esempio, la sponda “Rapazzini” è di loro proprietà e proprio in quel periodo vengono avviati i progetti per la costruzione della villa che ristrutturata è ancora quella che si vede. Cessioni, vendite, costituzioni di dote, nel tempo, ne dissolveranno pian piano i beni, gli ultimi possessi arcoresi fanno parte di un editto di vendita all’incanto datato 1833.

Anche i Visconti hanno proprietà e uno di questi è particolarmente attivo, infatti lo troviamo per alcune volte mascherato in un malcelato NN come padre di battezzandi.

Il d’Adda del tempo è Francesco III, rimasto presto orfano di padre, probabilmente ancora sotto tutela essendo ragazzo di circa quattordici anni; come fosse organizzata la gestione arcorese, relativamente alle loro numerose abitazioni e terreni, non è noto come pure mancano i nomi di fattori e campieri che esercitavano anche in proprio, coadiuvati da tirapiedi, il controllo sulle proprietà, sfruttando anche a loro privato vantaggio lo stuolo della manovalanza di “busecch schisciaa”.

Sempre lì in giro vi sono gli abitanti delle cascine Ca’ Bianca, Cappelletta, Ca’ di Lesmo, Giardino e dei Mulini di Mezzo, del Molinetto e dei “Spaditt”. Non mancano carrettieri e cavallanti a servizio dei Mulini.

A poca distanza e per strade ben collegate altri possessori, altra plebe ed altre nobiltà contornano il luogo: verso est “La Papina”, “Il Bruno”, “La Bergamina”, il “Sant’Alessandro” e il “Sanfiorano”, senza trascurare Oreno e Vimercate dove l’episodio di quella specie di don Rodrigo appartenente alla famiglia Secco, qualche anno prima, aveva già dato origine a un processo per un fatto quasi analogo e senza dimenticare l’esempio dell’Osio (l’Egidio di manzoniana memoria) che in questi prossimi luoghi era di casa.

Però la ricerca più seria dovrebbe essere rivolta ai possibili possessori di armi: i più o meno nobili e i “giovin signori” con le loro scorte, fattori e campieri, alla soldataglia in transito e di stanza; è chiaro che ci si può sbizzarrire come si vuole a buttar là ipotesi ma tutto ciò serve solo ad allungare la lista delle eventualità possibili.

Non era certamente un paese del tutto tranquillo, altri fatti di violenze, esempi di un certo vivere e morire, sono riportati nel “libro dei Morti” del tempo.

“Adì Diecinoue Decembre mille e sei cento settantauno”

Dionisio Brivio detto il Zoppino è stato amazzato et trouato morto in Casa sua da sua moglie Paola la quale mentre è venuta dalla filanda a hor sette ca. di notte la notte del giorno 18 corrente venendo il venerdì l’ha trovato morto in casa sua ferito con un colpo di martello, e messo nella cappa e ??d’indi?? è stato legato d’anni di sua età cinquantacinque in circa …

Non mancavano le leggi né le minacce di gravi pene, come risulta chiaramente nelle “grida” del tempo, ma come bene spiega Manzoni nel suo romanzo, le imposizioni avevano effetto solo sulla parte misera della popolazione lasciando all’arbitrio di certa nobiltà il tenerne o meno conto.

Le due immagini riproducono una di quelle famose “gride” nella quale, in conclusione al lungo elenco dei ricercati (oltre un centinaio di nomi) è indicato anche il “ricercato” assassino Secco-Borella a cui si accennato.

Il documento arriva alla conclusione:

… e così si è portata alla cura …

… et adì sedeci marzo se li è dato la sepoltura…

Così scrive il curato senza il formulario solito che usa per le registrazioni dei morti: “… è passato da questa vita munito di tutti li sant.mi sacram.ti e se li è raccomandata l’anima …”, d’altra parte, le sacre cerimonie relative alla preparazione alla morte, non erano state possibili.

Però:

… et prove in quantità …

La nota del curato lascerebbe sospettare che le prove avessero consentito forse, di identificare l’assassino?

Il fantasma

Traendo spunto dall’episodio, i “Contastorie”,  aggiungendo ed integrando avevano modulato nuovi racconti che andavano ad arricchire il repertorio delle narrazioni…

Dopo qualche tempo dal misfatto cominciarono a correre voci che quel tratto di strada che attraversava il bosco fosse infestato da apparizioni. Si raccontava che qualcuno avesse visto una sagoma, con sembianza di persona, quasi afflosciata, accoccolata presso il bordo a un capo della spalla del ponticello sul torrente dei Morti: la testa, abbassata sul petto, coperta da un velo, come addormentata, dal fagotto usciva come un ronfare fischiante che diventava un sibilo lamentoso; e chi, avvicinandosi si era provato a scuoterla aveva visto disfarsi la figura e si era trovato con un mucchietto di vecchi indumenti senza corpo. Altri, e questi erano i carrettieri, affermavano di essere stati fermati ed aver avuto la richiesta di un passaggio da una misteriosa figura che celando il volto dietro un pesante velo, una volta sul carro iniziava a raccontare il modo col quale gli era stata tolta la vita, poi in prossimità del luogo dove era stata trovata la morta balzava a terra e spariva, ma queste sembravano baie, prese in giro, a beneficio di coloro che spacciavano per verità invenzioni della fantasia.

Fantasia che diventava timore e paura, e questa non mancava all’insieme di donne che giornalmente percorreva la strada per la “Fóla” e trovandosi a passare per quel luogo, accelerava il passo sempre guardandosi in giro con timore, soprattutto nei momenti di alba e tramonto o addirittura nel buio della stagione invernale. Alcune affermavano di aver visto comparire fra gli alberi una sbiadita biancastra figura femminile che fuggiva inseguita da un gruppo di ombre che brandivano armi.

Tant’è che nel transito del luogo a un gruppetto di donne e ragazze che marciava stretto stretto tracciando ampi segni di croce e recitando giaculatorie, a una di queste capitò, una volta che nel quasi buio totale della strada, malamente illuminata da un lanternino volto al suolo, inciampando nei ciottoli del selciato mezzo scalzato dal solco della carrareccia e cadendo a terra sul limite del “roggiolo”, che contornava il percorso, gli uscisse uno zoccoletto dal piede. Il lanternino col quale si rischiaravano i passi si era spento: rialzatasi e ricercandolo guardandosi in giro, lo zoccolo sembrava sparito: nel buio pesto non riusciva a rintracciarlo, si mise carponi e aiutata dalle amiche, cercando di trovarlo, cominciò a sondare il terreno tastando con le mani mentre una delle compagne provava, con esca e acciarino, uno di quei piccoli congegni a ruota, a riaccendere lo stoppino del lanternino, ma quando la fiamma era lì per riprendere, un sottile diretto alito d’aria sembrava soffiargli sopra e quasi immediatamente si spegneva. Intanto, pian piano il crepuscolo cominciava a schiarire il cielo, riducendo leggermente il buio e lasciando intravedere la scura selva colonnata del bosco, poi un’alba di luce, filtrata da sotto una nuvolaglia violacea all’orizzonte, illuminò con un riflesso la decorazione metallica che ornava la punta dello zoccolo che giaceva nel “fossatello” a bordo della strada; accanto, appena visibile, seminascosto nell’erba, giaceva un minuscolo sacchetto di pelle sotto la cui bocca semiaperta un laccio di cuoio spezzato e sparse attorno alcune sfere di metallo. Ricuperato e calzato lo zoccolo, raccolto sacchetto e palline chiedendosi cosa fossero li avvicinò alla lanterna per distinguere meglio di cosa si trattasse . La ragazza che reggeva il lume, riconobbe l’oggetto per averne visto uno simile proprio in casa sua: si trattava di palle da schioppo e del loro contenitore.

Nel silenzioso semibuio dalla strada, il lontano rumore “cioccante” dello sbattere di ruote, oscillanti sull’asse per il dentro-fuori nelle tracce dei solchi delle carrarecce, lentamente veniva avanti, finché dal buio del bosco, che cominciava ad emergere nella nebbiolina mattutina che saliva dal Lambro, sulla curva emerse, ancora confusa, la sagoma del carriaggio del mugnaio, che il cavallo trainava nel consueto giro mattutino per le consegne del macinato. Il gruppetto, che si era ricomposto si spostò per lasciare spazio al traverso, notando che il carrettiere, solitamente seduto sul bordo anteriore con le redini in mano, non c’era. Intanto il carro passando cominciava a mostrare il retro, dal piano dei sacchi di farina il busto di una sagoma, mal individuabile, si alzò guardando verso le donne, ergendosi poi sulla persona, con il lato di profilo fosforescente, indefinito di un corpo femminile che sembrava avvolgerlo, come una fiamma avvolge un tizzone acceso, sempre più affinandosi e infine evolvendo in una lingua di consistenza lattiginosa che si dissolse nell’aria, Con le mani sugli occhi, fra il guardo e non guardo fra le dita, le donne, sbigottite e impaurite cercavano di mascherare la visione, mentre il carro continuando il suo andare, rientrava lentamente sparendo nella foschia nebbiosa.

(Nota: Il raccontino, nei tempi della composizione, cerca di ricalcare il ritmo della recita nella narrazione verbale)

Il carrettiere, seduto di traverso fra la stanga e l’orlo del piano del carretto, con un piede sulla staffa del predellino, ciondolava al ritmo delle scosse che le asperità del suolo e il dentro e fuori della carrareccia trasmettevano al veicolo quasi assecondando l’avanzare del sonno che l’ultima libagione propiziava:

 …la fermata alla Cappelletta … l’incrociarsi coi vetturali che percorrevano la strada all’inverso …  il vino del Gernetto, che il garzone gli aveva raccomandato, e la verifica gli aveva dato ragione, manteneva le sue promesse, anche l’ostessa si era data un gran da fare con tutta la compagnia: risate, sorrisi repressi ed occhi dolci mentre si chinava a fingere di pulire il tavolo dalle gocce e dalle briciole mostrando l’armatura, alla faccia di quel caprone del marito che gongolava mentre riempiva mezzine, sturava bottiglie e colmava bicchieri … d’altra parte l’antico proverbio parlava chiaro: “per fa ‘ndà ben l’usteria gaveur ustina bela, vin bon e l’ost un po’ cujon …” e mentre si assopiva gli tornava in mente la battuta con la quale si era salutato coi compagni di libagione: “… salüdum l’umbra sta l’incuntrat …”

…il cavallo non ha bisogno né di sollecitazioni né di schiocchi di frusta, conosce la strada della stalla davanti alla quale una volta arrivato si fermerà …

ora, mezzo addormentato, tra un ciondolio e l’altro, agli scossoni più violenti socchiude gli occhi cercando di riconoscere il tratto di strada che sta percorrendo … così avanzando fra un sonnellino e una sbirciata il fermarsi del cavallo lo sveglia totalmente … convinto di essere arrivato alla stalla, a capo basso, salta a terra, poi alza il viso girando lo sguardo in tondo, non riconosce il luogo …

… ma … non sono a casa!

guarda alla strada: il cavallo è impuntato, scalpita, nitrisce, scuote la testa (qui nell’arcorese il comando di avvio è dato pronunciando la “ü” chiusa ad alta voce, mentre per la fermata si usa “œu”):

… üü …

capisce il comando ma non risponde alla sollecitazione e non avanza di un passo, come se qualcuno o qualcosa gli si sia posto davanti e gli impedisca di proseguire …

gli gira attorno, gli accarezza la testa e gli parla cercando di calmarlo e intanto si guarda intorno … forse che qualche biscia l’abbia spaventato? Lo prende per la cavezza e tirando leggermente tenta di riavviarlo …

D’un tratto una massa evanescente, ingigantendo, scivola fuori dal bosco inglobando e avvolgendo i contorni dell’ambiente, come una nebbia bambagiosa nella quale si intravede un volto femminile, ingombra la strada; il cavallo spaventato, sbava e nitrendo tende a recalcitrare. Il carrettiere, già sull’avviso, cerca di mettere in pratica gli scongiuri che altri prima di lui avevano sperimentato facendo un segno di croce nell’aria e recitando: “…va breut sogn per la tua sort, va ‘cà tua, va cui to mort … sta luntan da la cà mia, va remengo chi tasiat …”… intanto una voce, viene da tutt’intorno avvolgendo il carretto, una voce che strascicando le parole, urla la violenza subita … rimbomba la scarica di due esplosioni poi il fenomeno si dissolve lasciando cavallo e carrettiere in un bagno di sudore freddo.