“Ul trik e trak”

“Ul trik e trak”

Ancora un salto  indietro nel tempo con questo ricordo, che Tonino Sala ci propone. Legato alla Pasqua, e vissuto toccando con mano, quando era chierichetto,  questo strumento, senz’altro caduto nel dimenticatoio anche dei più assidui frequentatori delle funzioni religiose. Come sempre nel percorso di ricerca, che abilmente l’amico conduce, ci si accorge dell’imporatante contenuto sociale e storico,  alla base di “usi e costumi” come il “triketrak”. Non mi resta dunque, che augurare serene festività pasquali a tutti voi e una buona lettura.

Reminiscenze

Oggetti misteriosi di sacristia: BATTOLA, CREPITACOLO O TRIKETRAK

Sfogliavo l’altra sera l’Enciclopedia, cercando la spiegazione di un vocabolo di cui mi sfuggiva il significato, quando l’occhio distratto mi cadde su una parola che mi fece fare un salto all’indietro nel tempo di oltre una settantina d’anni: “battola”:

Battola [tardo latino battulum “randello”]: sorta di tabella di legno con maniglie mobili in ferro che, volgendosi rapidamente, ruotando su un manico, produce un rumore secco e assordante e annunzia le funzioni nelle chiese durante i giorni della Settimana santa, nei quali non si possono suonare le campane. E’ detta anche “crepitacolo”.

Tra i ricordi del periodo in cui esercitavo il servizio di cereghèt pìsa muchèt riaffiorò la sagoma di quello strano strumento, noto a tutti gli arcoresi del tempo, col suo nome dialettale (triketrak), ma oggi sconosciuto ai più; d’altra parte dedurne l’uso dalla forma è impegnativo se non impossibile: (una tavola di legno di noce, circa 30 x 50 x 3, munita di un manico a una estremità per reggerla, sulle facce della quale sono applicate delle maniglie mobili in ferro che nell’agitazione rotatoria alternata, impressa dal polso, sbattono sulla tavola emettendo semplici colpi secchi o un rumoroso, penetrante crepitio più o meno articolato in proporzione alla forza e alla velocità di rotazione impresse).

 

La liturgia della Settimana santa, a quel tempo, nella funzione della “Passione“, celebrata il venerdì mattino, prevedeva l’ultimo scampanio all’annuncio dell’agonia e morte del Redentore. Le campane rimanevano poi mute, tirate a livello (in péé), cioè con l’apertura in alto, in segno di lutto fino al rito della “Resurrezione”, officiato il sabato mattino, che accoglieva la proclamazione del “Cristus Dominus resurrexit” (inteso non come “Cristo Signore è risorto”, ma come “Risorgi Signore!”) con uno strepito assordante di campane, campanelli, battito di piedi calzati di zoccoli e colpi battuti sulle panche, per “svegliare il morto”.

La preparazione dell’evento scatenava le fantasie dei ragazzi. Ognuno si attrezzava come meglio poteva per fare il più forte e più originale rumore possibile: campanelli a mano, campanelli da bicicletta, campanacci da collare degli animali, corti bastoni di legno da battere sulle panche, perfino martelli, sfuggiti alla sorveglianza dei sediari (cadregat), che qualcuno non esitava a completare con chiodi da conficcare nelle panchine, riuscendo, a volte, per caso o per malizia, ad inchiodare la giacca di quello che stava davanti; altri si accontentavano di levarsi i sucuròt dai piedi (gli zoccoli erano allora le calzature più comuni nell’intera popolazione) potendo scegliere di batterli l’uno sull’altro o percuotere a ritmo alterno le panchine – a volte la violenza del battere era eccessiva e gli zoccoli finivano in pezzi – ci fu chi arrivò fino a portarsi in chiesa la sonagliera della collana del cavallo; a tutto questo si sarebbero aggiunte le campane che avrebbero ripreso a suonare, manovrate da giovani animosi, che conquistato il posto alle corde, erano smaniosi di dimostrare forza e maestria nell’obbedienza agli ordini del direttore-campanaro Busìn che con voce perentoria ordinava: “…atten bagaj, ga hi a livel? Prunt?… Prima- terza, segunda- quarta, quinta, sesta…”.

Il Sabato Santo, per “fa resuscità ul Signur” la chiesa era stracolma, ogni piccolo spazio era occupato. Dalla cappella dell’Addolorata venivano portate in chiesa le panchine sulle quali ragazzini e ragazzine (scrupolosamente divisi), sotto la sorveglianza delle suore, venivano stipati a contatto stretto di gomito, i sediari (cadregat) disponevano sedie dappertutto: a lato delle file di panche-inginocchiatoio, negli altari laterali, nei corridoi di sacristia, in coro, negli spazi di accesso ai matronei e completavano la disposizione fino a saturare ogni spazio lasciando un minimo di vuoto come passaggio per l’accesso. I fedeli erano talmente tanti che per fare spazio si era costretti a spostare man mano gruppi di ragazzi dalle panchine e collocarli sui gradini prospicienti la balaustra dell’altare e perfino sull’altare stesso:
(a testimonianza, pur essendo già passati una decina d’anni da quando sull’altare ero testimone diretto dei fatti, trascrivo dal “Bollettino parrocchiale dell’aprile 1952 uno stralcio dal commento alla cerimonia della Resurrezione scritto dal curato don Monti: «…la chiesa era stipatissima, non mancavano i nostri ragazzi muniti di campanelli che a questa cerimonia ci tengono moltissimo per ragioni loro… particolari. Pazienza: …Omnis spiritus laudet dominus… Il rumore in chiesa seguito alle parole “Cristus Dominus Resurrexit” era simile a quello di un aereo in decollo…» ) all’annuncio, le onde sonore, generate dai fedeli in esultanza, erano talmente dirompenti da sollevare nugoli di polvere e da generare un senso di dolore al momento in cui il rumore cessava.

Ma dove era finita la battola? … Rieccola:

L’annuncio delle funzioni, essendo mute le campane, per la “Via Crucis” pomeridiana e per l’interminabile “Quaresimale” (tre prediche successive) del Venerdì sera, e per la “Messa di Resurrezione” del Sabato mattino era fatto con i Triketrak. Con sufficiente anticipo, lo stuolo dei chierichetti, in veste e cotta, si divideva in gruppi che prendevano gli strumenti trascinadoseli per tutte le vie del paese e a turno scuotevano le tavole a più non posso cercando di ricavarne il massimo rumore possibile. E’ evidente che il livello di intensità era proporzionale alla dimensione e alla forza dei chierichetti (ricordo che i sudati, goffi tentativi di alcuni sottosviluppati malnutriti – erano tempi di guerra – per la verità non sortivano grande effetto), ma in un paese in cui non vi erano rumori di fondo ad affogare i suoni, il caratteristico clàclàclàclà era sufficientemente penetrante e generava onde sonore ricche di echi negli androni dei sottoportici e nelle strette vie.

A stimolare curiosità, tanto per completare le note, trascrivo uno stralcio dal libro di un grande cultore di tradizioni del tempo andato che potranno interessare, forse, appassionati e gli ormai prossimi alla partenza.

PARALIPOMENI, stralciati da “SICUTERAT” di Gian Luigi Beccarla, a completamento dell’indagine sul triketrak e altre usanze della settimana santa

Leggo nel vocabolario del Maragliano (Maragliano 1976) che a Voghera (dove barbán, baràba significano malfattore) nella settimana santa, non potendosi suonare campane o campanelli, era tradizione battere con verghe le panche della chiesa, con gran divertimento dei ragazzi che accompagnavano il frastuono con scherzi alle donne in preghiera: questo frastuono, tra Pavia e Voghera, prendeva il nome di batbarbán battere Barabba’. Nel Polesine, al mattino del sabato santo, quando le campane incominciano a suonare, al grido di a morte Baraba! I ragazzi giocavano a far scoppiare misture di zolfo e potassio con l’intento di mazár Baraba (Turolla 1993). A Zara barabàn era il frastuono che i ragazzi facevano con molte verghe la sera del venerdì santo appena spenta l’ultima delle candele infisse sul candelabro a triangolo (Rosamani 1958; far el barabán; Motto 1984), cui si aggiungeva lo strepito delle trapatácole, le raganelle. In quei giorni le campane venivano appunto sostituite con apparecchi a ruote dentate o a percussione che producevano molto strepito, la raganella o crepitacolo, le battole o tabelle, di varia foggia a seconda dei luoghi e di vario nome. Si suonavano anche i tritoni di mare (piemontese corn, la cüchija (conchiglia), oppure corni di bue o trombette di canna (o di corteccia di castagno giovane, in Corsica; ALEIC 1924). Pur di far rumore, si trascinavano anche cassette di legno piene di pezzi di ferro (a Castelluccio Superiore, provincia di Potenza, erano chiamate tróccole). Un informatore dell’Atlante Linguistico Italiano (ALI 1375) testimonia che a Manfredonia (Foggia) si legavano tutte insieme delle scatole di latta vuote allo scopo di fare gran fracasso per «cacciare il diavolo». Anche le raganelle avevano diverse dimensioni: le più grandi erano casse lignee molto fragorose, con manovella girevole che muoveva più ruote dentate, tipo lo sgrisul friulano, che doveva essere azionato come una carriola, e in Toscana (Siena) o nel Molise c’era l’assordante racanone, il tritaccone, il calascione a San Giovanni in Galdo la cecale, la scigala a Vagna di Domodossola (ALI 1374). Un altro tipo di idiofono consisteva in una tavoletta di legno percossa con un martelletto. Chiamata in piemontese pichetta, friulano batecul o batacul,  nel Molise tavella, tricchetracche, trócciole, trilacca, ttippettappe, si ricorda una variante dello strumento a battenti in uso del Molise, la tróccola, o tricche tracche, o traccagliola, una paletta di legno alla quale erano incardinate due tavolette mobili.
Molto diffusa la tabella, una tavola di legno a forma di tagliere con manico (piemontese: ciapuloira, a Giaveno  a Osiglia ciápura, sulla quale erano attaccate due maniglie o anelli di ferro mobili e infissi su entrambi i lati: con la torsione del polso del suonatore gli elementi di ferro percuotevano la tavola producendo rumore: nel Piemonte meridionale e in Liguria aveva nome taravela o t(a)rabácula, tarabasca, il tipo t(a)rabácula era diffuso nel Pavese, in provincia di Sondrio, nel Cremonese, nel Mantovano. Nel Veneto uno dei nomi in uso era aulera, o u(r)lera, aorera (connessi col verbo urlare. Pellegrini 1986). Predominanti dal Nord al Sud della penisola le formazioni onomatopeiche del tipo tiptap, trichtrach. (nell’Ossola tipatáp, timpitapa, nelle valli del Cuneese tichtach, ticatách, nelle Langhe [Cortemilia] tichetách, nell’Appennino genovese [Torriglia] trictrache, a Sondrio, Como trich e trach, in Val Sessera [Vercelli] tichtach, nel Milanese ticatách, trichetrách, nel Pavese trichetrache, nel Bresciano titácula, in Istria ticotaco, tricatraca in Val Magra, a Porto Santo Stefano [Grosseto] tippe tappe, tapatépp nel Teramano, tippi tappi nell’area del Fucino [L’Aquila], tricche tracche, tricchi trac[chi], tricatrách nel Lazio, Campania [a Napoli anche triccaballacche], Abruzzo e Molise, Basilicata, Puglia, Sardegna [Gallura], Sicilia [Siracusa])
Il tipo tróccula è diffuso al Sud (Sannio, Puglia, Salento, Lucania, Sicilia e Calabria meridionale), al Nord il tipo báttola dal Trentino al Bellunese, dalle Apuane al Polesine con tutta una serie di variazioni intorno al nucleo fonico batt(ere).

Il commento non finisce qui, a chi volesse approfondire l’argomento, integrato da un cumulo enorme di curiosità e notizie, non rimane che andare al libro citato.