STORIA DELL’ARTE MODERNA INTERPRETATA DA GINO CASIRAGHI: “HENRI ROUSSEAU”

STORIA DELL’ARTE MODERNA INTERPRETATA DA GINO CASIRAGHI: “HENRI ROUSSEAU”

A distanza di molti, forse troppi mesi, proponiamo una nuova puntata della Storia dell’Arte Moderna, così come Gino Casiraghi, ha pensato di sintetizzare in un distillato di vero pregio e originalità. Un nuovo campanile si staglia nel cielo dell’arte. Il Doganiere Henri Rousseau, nato nel nordovest della Francia nel 1844, attraverserà il secolo, proponendo un’arte che come per molti altri spiriti liberi, avrà difficoltà ad affermarsi. Un’arte che, nonostante il talento, non l’affrancherà mai dalle difficoltà economiche. Oberato dai debiti, morirà nel 1910, a Parigi.
HENRI ROUSSEAU
L’arte di Rousseau è alquanto singolare, unica nel suo genere.
La critica quindi, trovandosi nella impossibilità (gli succede spesso) di inquadrare la sua pittura, in nessun contesto storico e in nessuna poetica preesistente, l’ha sbrigativamente classificata come naif, ingenua.
La sua, arte di concezione certamente primitiva, è tuttavia disseminata di reminiscenze colte, basta citarne una per tutte: quel Paolo Uccello amato non solo da Rousseau, ma da tutti i surrealisti, i quali guarderanno con molto interesse allo stesso “Doganiere” di Rousseau.

Le sue invenzioni formali non sono però frutto di un primitivismo spontaneo, bensì di una ricerca assolutamente consapevole; una sorta di esoterismo apparentemente visionario ma lucido. E’ bene rammentare che Rousseau era persona assai colta.

Fu scrivano d’ufficio, impiegato al dazio (da qui il soprannome di Doganiere) di Parigi. Era sassofonista della banda reggimentale, suonatore di violino e di flauto, compositore di musica nonché poeta e autore di lavori teatrali, e attento anche alle cose politiche (è stato massone). I suoi quadri, pur con la loro patina d’ingenuità, sono di una struggente verità esistenziale. Egli in sostanza dipingeva, sia pure col suo stile “sempliciotto”, la vita piccolo borghese nei suoi rituali più convenzionali, e con una carica emblematica straordinaria.
E’ un mondo, il suo, filtrato da spirito infantile sincero, certamente influenzato dalla tradizione iconografica popolare. I suoi paesaggi esotici, le vegetazioni, i vasi di fiori, oltre ad essere elementi della sua “verità” fantastica, l’espressione di una vitalità sconosciuta che rimanda alla natura preistorica, sono composizioni rese come vere e proprie sinfonie formali e cromatiche. Ecco come anche si rivela, spontaneamente, la sua cultura musicale.
I personaggi immersi nelle sue improbabili vegetazioni, sono di una plasticità rigida e compatta, sempre composti e un po’ goffi, quasi caricaturali, nei loro volumi stagliati e precisi. Sono figure come apparizioni surreali ma pure cosi vere; anche se sembrano molto lontane dall’arte cosiddetta “colta”.
Dietro la sua opera si sente anche uno schema fotografico che certamente Rousseau ha studiato. L’impianto compositivo è sempre rigoroso, gli spazi, volutamente privi di prospettiva usuale, sono molto controllati, e tutti gli elementi del quadro si dispongono in perfetto equilibrio. Nei suoi dipinti non cura solo le figure e la natura, ma anche le atmosfere cariche di un pathos metafisico. E’ una pittura, la sua, da leggere soprattutto per metafore, come allegorie un po’ strane e misteriose, simbolicamente idealizzate.

Quella di Rousseau è un’arte cosi autonoma e singolare da apparire sprovveduta; una sorta di ingenuità che io chiamo “infantilismo colto”: una concezione operativa da accomunare alla musica folcloristica: ruvida, forte, e al tempo stesso dolce e suadente.

Negli ultimi anni della sua vita Rousseau raggiunse una buona fama, che aumenterà dopo la sua morte (1910). Purtroppo questa sarà sempre accompagnata da una valutazione impropria: di arte ingenua. Gli stessi suoi amici ed estimatori: Picasso, Derein, Vlaminck, Jacob, Apollinaire e altri, condivisero, per certi aspetti, tale giudizio. Si distinse il solo Picasso, quando un giorno gli disse: “Noi due siamo i più grandi pittori del nostro tempo, lei nello stile egiziano, io nel moderno”. Questa un’affermazione apparentemente bislacca, risulta acutissima. In sostanza Picasso è un classico del primitivismo; mentre Rousseau è un primitivo della modernità; ed ha influenzato tutta “l’arte bruta”,  nonché la poetica surrealista; una pietra miliare, in questa direzione è “il divano nella foresta”.

Quando nel 1910 Rousseau espose al Salone degli Indipendenti, appunto “il divano nella foresta”, il critico Andrè Dupont rimase sbigottito per la presenza di un canapè collocato nella giungla. Allora Rousseau gli spiegò: “la donna addormentata sul canapè, sogna di essere trasportata in quella foresta ascoltando i suoni dello strumento dell’incantatore. Questo è il motivo per cui il canapè è messo nel quadro”. Con tale operazione il Doganiere introdusse in pittura la funzione irrealistica del sogno: uno dei fondamenti del Surrealismo.

ARRIVEDERCI ALLA PROSSIMA PUNTATA:

IL DIVISIONISMO