Quando ad Arcore c’era il  “Black Panther”

Quando ad Arcore c’era il “Black Panther”

NOTIZIA DELL’ULTIMA ORA: IL 15 GIUGNO 2016, MERCOLEDI’ L’ARTISTA GIUSEPPE SPAGNULO E’ SCOMPARSO, AVEVA 80 ANNI.

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L’aver ricordato pochi giorni fa la figura dell’artista e la vicenda del “black panther” lascia attoniti e ancora una volta la casualità temporale degli eventi genera qualche spiazzamento, di non semplice interpretazione razionale.


La pubblicazione mensile del notiziario comunale arcorese, nella sua preparazione, prevede incontri in cui la redazione elabora la sua strategia editoriale. L’amico Tonino Sala, vi partecipa e mi racconta di lui e di Fulvio Ferrario, ex sindaco della Arcore anni ’70, altro invitato a questa speciale “mensa della memoria”. In queste occasioni prende corpo l’articolo del mese, che racconta di fatti, luoghi e personaggi che sono stati la storia, grande e piccola della città. Ecco che in questi convivi è usuale assistere ad un rincorrersi di memorie che si annodano, avviluppano, scontrano, in un bailamme di palleggi virtuosi. Tonino ne ha intercettato e stoppato uno che gli sembrato “più vivo” e nella sua originalità, meritava un’attenzione maggiore. La redazione forse non ha avuto la stessa prontezza, ma quanto è uscito dalla penna di Tonino, è una pagina della Arcore del passato, neanche tanto lontano, che travalica i confini della città, per arrivare metaforicamente dall’altra parte dell’oceano e toccare in ambito nazionale ed europeo alcuni protagonisti dell’arte figurativa del novecento, che hanno con le loro opere segnato l’epoca. “The black panther”, che per alcuni mesi, aveva fatto mostra di se davanti alla allora sede comunale di Via Gorizia, aveva dato vita nell’inconsapevole Arcore, e tra gli arcoresi d’allora, altrettanto ignari, ad un presidio di un’avanguardia artistica che col senno di poi avrebbe forse attratto quelle folle che oggi, nella Milano della finanza, s’immortalano davanti a quel dito, di Cattelan, rivolto al cielo, che nel suo significato provocatorio, non fa che ripetere, a distanza di anni, gli stessi intenti che avevano senz’altro ispirato Giuseppe Spagnulo, nel realizzare il suo lavoro. Un artista e la sua opera, che vi invito a conoscere nel seguito dell’articolo. Oltre alla precisa ricerca di Tonino, occorre riconoscere la verve narrativa di Fulvio Ferrario, che affabula e coinvolge, al cui preciso racconto si deve la stesura di queste curiose note. Una prima ed indiretta collaborazione con questo blog, dell’ex sindaco di Arcore, che auspichiamo possa farsi diretta e continuativa perché raccontare il passato è bello, ancora di più se sai “colorarlo”, ed ancora di più, affinché tutto questo, messo nero su bianco, diventi “storia” e non si disperda nell’oblio del tempo inesorabile, che passa e cancella tutto quello che non viene custodito con passione ed amore.
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“The black panther”

Passiamo al racconto di Tonino:

Cronaca di un fatto avvenuto in paese negli anni settanta, richiama personaggi, alcuni arcoresi di nascita, altri di adozione, e altri che con Arcore ebbero, nel tempo, a spartire un periodo della loro vita, gente che apparteneva al mondo dell’arte figurativa, dei quali, nel corso dei fatti e della storia, occorre fare un minimo di presentazione.

Tutto nasce dalla protesta del professor Romano (insegnante di Educazione Tecnica alla Scuola media di Arcore) per i rumori generati nel dirimpettaio laboratorio del Crippa (detto Crippone per il volume corporeo) che, ospitando le avanguardie artistiche, sottoponeva i vicini ai laceranti rumori di ferraglie che gli artisti nel loro comporre: “…tagliano, assemblano, lacerano, in opere più consone a officine di carpenteria che non ad abitazioni civili…”

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Via Carducci – Proprietà Crippa, abitazione e laboratorio

Il tutto rimaneva però in una tranquilla civile diatriba tra confinanti e dirimpettai, finché l’arrivo in via Carducci di Spagnulo, sbarcato ad Arcore al seguito degli esperimenti con terre e gres di Nanni Valentini, col quale cercava nuovi effetti, violentando la materia, e finendo dove finivano alcuni dei nuovi artisti in cerca di aiuto e di gloria, cioè nel laboratorio-officina di Crippa, suscitò nel professore, palesemente tendente a destra, reazioni, politicamente determinate  e tese a risolvere il problema, rivolgendosi all’autorità civile: cioè al sindaco.

Abbiamo introdotto due personaggi, che pur nella loro notorietà meritano di essere inquadrati e spiegati a chi non li conosce. Iniziamo con il più noto per gli arcoresi, Nanni Valentini, non si intende farne una biografia, ma  presentare alcune testimonianze che ne collocano la personalità tecnico-artistica nel contesto del periodo storico compreso fra gli anni ’50 e ’80 del secolo scorso.

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Stralciando dall’articolo di Sarah Valtolina – Massimiliano Rossingiornalisti del “Cittadino”, a proposito di Nanni Valentini

«… Sono storie di creta, di tela e carta quelle che Nanni Valentini ha raccontato per oltre tre decenni. Tanto è durata la sua parabola artistica, dalla bottega di Bruno Baratti a Pesaro, era il 1952, agli anni di insegnamento con gli allievi dell’istituto d’arte di Monza. In mezzo c’è la ricerca continua di un legame con la terra e i suoi elementi, tanto da farne cifra stilistica e strumento di indagine privilegiato delle sue opere. […] A raccontare l’uomo e l’artista Valentini saranno Sergio Orlando Riva, direttore dell’Archivio Valentini di Arcore e la figlia Tiziana.

«Mi piace manipolare la terra, vedere attraverso la tela, bagnare di colore le cose – diceva ai suoi allievi -. Cerco di capire cosa c’è nell’interspazio tra il visibile e il tattile. Forse un desiderio di rendere fluido ciò che è cristallizzato».

Nato a Sant’Angelo in Vado, in provincia di Pesaro, nel 1932, Giovanni Battista Valentini, detto Nanni, iniziò a innamorarsi dell’arte sul finire della Seconda guerra. Nel 1945 frequenta la Scuola d’arte per decorazioni in ceramica di Pesaro e quattro anni dopo si iscrive all’Istituto d’arte di Faenza. Iniziano i viaggi, a Bologna, all’accademia di belle arti e poi Parigi, dove incontra Burri e Bissier e a Roma fino ad arrivare nella Milano dei fratelli Pomodoro e Roberto Senesi. È di quegli anni la scoperta del grès e il progressivo abbandono del lavoro pittorico.

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Nanni Valentini al lavoro

«A casa Pomodoro ci andava da invitato perché lì c’era una corte importante – racconta Sergio Riva – c’erano i collegamenti con il mondo dell’arte e con i collezionisti, con le gallerie, il mondo dell’alta finanza e personalità dello spettacolo. Decise allora di fermarsi a Milano», dove cambiò tre o quattro studi («non aveva mai soldi», come molti degli artisti dell’epoca), prima di spostarsi definitivamente in Brianza: alla fine per vivere aveva deciso di insegnare, prima a Cantù, poi a Monza dal 1970. «Tra il 1958 e il ’62 faceva fatica a vendere in Italia, ma all’estero era già richiesto. D’altra parte non ha mai seguito strategie mercantili ». E non accettò mai, sottolinea Riva, di perpetuare una scelta vincente pur di accontentare il mercato, più che frequente oggi: «Cambiava continuamente. Come dopo la mostra del 1967 all’Annunciata. Un successo, per la critica. Ma lui non era contento, e si metteva a inseguire altri percorsi, altri temi».


«Con Lucio Fontana come riferimento assoluto tra molti altri, e comunque legato all’artigianalità antica della provincia marchigiana d’origine, Nanni Valentini affonda le radici della sua ispirazione nella mitologia classica e nell’antropologia del sacro – spiega Flavia Dolcini, della Leo Galleries -. Tanto potente è ancora oggi l’impatto visivo delle sue creazioni, quanto caparbio è stato in passato il suo isolamento dalle consuetudini e dalle mode». Una vita che si è prematuramente spenta nel 1985, per un banale shock anafilattico, ma che ha saputo regalare con generosità, «donando all’arte italiana del Novecento una delle pagine più complesse e significative», continua Dolcini. Un incontro, quello proposto […] «per offrirci una chiave di lettura dell’evoluzione del suo fare, della sua disciplina e delle sue divagazioni …
».

Inoltre, le testimonianze di vita scritte da Giuliano Scabia, scrittore:

 «… Andavo da Nanni Valentini ad Arcore – Valentini il ceramista, pittore, scultore – uno che era davanti sempre in esperimento – e lo trovavo intento a scolare e dosare il colore per le sue tazze e piatti meravigliosi – alle prese con acqua, aria, terra e fuoco, i quattro elementi del ceramista e del mondo – e mi chiedevo: Dove sta mettendo le mani, in che oltre? E nei quadri e disegno vedevo gli spazi e le visioni di Nanni – visioni quasi indecifrabili, con varchi e orizzonti – visioni di colore e segni, pre-sculture. Così ho visto nascere la Torre del fuoco, le case di Barcellona. Oggetti di straordinaria poesia, unici. Con le mani nella creta dove frugava Nanni?…»

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Nanni Valentini sta modellando una nuova opera

Valentini si dichiarò una volta interessato alla realizzazione di una “pittura a tre dimensioni”, pittura in rilievo o scultura dipinta: per questo l’artista ha scelto la ceramica, perché con la ceramica si può manipolare la terra, creare a tre dimensioni, ma anche dipingere, colorare, smaltare, graffiare, incidere. Per gran parte della sua carriera oscilla fra pittura e ceramica, poi lascerà quest’ultima per farsene riconquistare dagli anni Settanta in poi. L’opera non è soltanto una scultura, non è semplicemente un vaso che reca tracce del processo della sua creazione manuale. L’andamento spiraliforme della materia che cresce su se stessa ha generato anche il frammento che ora sta applicato al muro e che apre una nuova relazione fra l’opera e lo spazio. Ugualmente la pone il bassorilievo astratto che svetta anch’esso sulla parete. Così l’opera si fa relazione e memoria visiva del gesto creativo.

Dunque Nanni Valentini quale polo aggregante di  fermenti artistici,  attira in quel di Arcore, Giuseppe Spagnulo

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Giuseppe (Pino) Spagnulo    (novembre 2021 il sito risulta in manutenzione)

Spagnulo aderisce alla protesta del 1968, simboleggiata nei primi lavori in metallo, da installare nello spazio ambientale urbano. Questi “grandi ferri” recuperano la geometria e la logica costruttiva del materiale con cui sono forgiati, e introducono alle riflessioni dell’artista sulla fisicità e la materialità del lavoro dello scultore. Spagnulo lavora infatti nelle acciaierie, negli altiforni e nelle officine, forgiando le proprie sculture insieme agli operai.

«… L’entusiasmo si rivolgeva come attenzione ai nuovi movimenti attivisti americani di quel momento. Gesti e posizioni importanti che, le Black Panthers stavano facendo ed assumendo. Mi affascinava in loro questa causa per la Libertà mescolata all’impegno politico. Era un Vero internazionalismo politico, un internazionalismo delle Idee. Dall’Europa all’America e di ritorno. Le università americane, quelle francesi, i tedeschi partecipavano per la prima volta nel secondo dopoguerra ad un momento collettivo forte, fatto di giovani, un vero momento “globale” come oggi si direbbe esaltandone la complessità, l’effervescenza, la forza era una sorta di gara, con tutte le speranze ed i casini che questo poteva portare.

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Giuseppe (Pino) Spagnulo al lavoro ad Arcore negli anni ’70.

È stato forse uno dei momenti più belli che ha vissuto questo paese e forse l’intera Europa. Era il momento dell’utopia collettiva, un primo momento insieme. La scultura non poteva non rispecchiare tale energia …».

E se la scultura deve rispecchiare tale energia, tensione e libertà, allo scultore d’avanguardia non rimane che affrontare l ’intera potenzialità delle forme, delle figure della scultura; elementi di sempre e base del fare plastico ed artistico.

Affrontarli “eroicamente ”con la forza delle idee e la caparbietà dell’epoca equivaleva allo spezzarli; spezzarli in un gesto che diviene esemplare, definizione di una nuova immagine della scultura. «Ho preso i piani, le diagonali, curve ed i ferri …e li ho spezzati. Poi ho preso dei cerchi ed ho spezzato anche loro. Perché come ti ho detto non mi interessa la forma, ma il “concetto ”di Forma e per quello agisco. Io cercavo di rompere anche la costrizione dell’Ideologia in sé.

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Spagnulo in studio con il figlio Federico nel 1974.

Per me spezzare il Cerchio era anche superare e rompere ogni Ideologia precostituita …».

Scolpire allora non è più solo gesto generante linee-forza o definizione di Spazio come per i futuristi e poi Fontana ma, insieme si evolve verso una natura di gesto sociale, di confronto anche polemico. Nascono, in un momento in cui la scultura italiana non affrontava quella tipologia, le sculture colossali, di grandi dimensioni, pensate per essere collocate in spazi urbani, per interagire con le condizioni dello Spazio ed anche con la gente, la società più varia e lontana da ogni problema d ’estetica dell’arte. Tra tutte Black Panther del 1968 momento cruciale in cui figure originarie o primitive aprivano spazi penetrabili ed al tempo stesso simbolici politicamente. […] È come se per Spagnulo lo scolpire sia in questo momento una definizione di luogo e di spazio da segnare più che invadere; paradossalmente è come se ogni linea-forza e ogni concetto legato alla forma, si traducesse in una dichiarazione sociale: il voler essere “lì ed ora ”segnando con peso lo spazio, compiendo un gesto, liberando nuovo.

I “Ferri spezzati sono frutto, di un gesto energico e primario e di una fisicità passionale e sanguigna, ma sono pure una singolare reinterpretazione delle valenze misto concettuali oltre che “materiologiche” del taglio di Fontana, da cui l’artista aveva preso le mosse. Essi compaiono nella prima metà degli anni Settanta ma sono preparati da sculture come Black Panther del 1968-1969, nelle quali l’impegno politico sollecita un’azione dinamica di protesta, o comunque di tensione e di rottura, calibrandone tuttavia il rapporto con lo spazio, e con l’ambiente urbano.

Per terminare nella contestualizzazione dei personaggi e dell’epoca storica una necessaria digressione sulla situazione socio-economica internazionale, fonte di contestazioni e proteste, in particolare quelle di certa parte degli afro-americani degli Stati Uniti dove il movimento di rivendicazione della parità aveva generato i Black Panthers.

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Black Panthers

« […] Fine degli anni sessanta del XX secolo, l’organizzazione divenne famosa nella scena politica nazionale statunitense ottenendo anche una notevole considerazione all’estero, fino a quando, a causa di divisioni interne e repressione da parte del governo, cominciò la sua parabola discendente. L’organizzazione fu fondata ufficialmente a Oakland (California) nel 1966, per iniziativa di due ex-compagni di scuola, Huey P. Newton e Bobby Seale. L’obiettivo dei due era di sviluppare ulteriormente il movimento di liberazione degli afroamericani fino ad allora pesantemente discriminati, socialmente, politicamente e legislativamente. Il movimento di liberazione stava conoscendo negli anni sessanta un rapido sviluppo grazie all’opera di attivisti come Malcolm X e Martin Luther King. Grosso risalto per l’organizzazione in occasione dei giochi olimpici di città del Messico nel 1968, quando i due velocisti neri Tommie Smith e John Carlos con pugni chiusi e mano guantata di nero (simbolo della lotta delle Black Panthers), ricevevano le loro medaglie restando immobili sul podio dei vincitori. I due atleti neri ebbero la solidarietà di molti atleti bianchi quando le autorità sportive, ritenendo inadeguato il gesto, li sospesero dalla squadra americana con effetto immediato e li espulsero dal villaggio olimpico.La peculiarità delle Pantere fu quella di rifiutare le istanze non violente e integrazioniste di King, a loro avviso inefficaci e addirittura motivate da una nascosta collusione con le strutture di potere dei bianchi. Al principio della non violenza le Pantere sostituirono quello dell’autodifesa (self-defence) come strumento di lotta fondamentale. In particolare, cominciarono a praticare il “Patrolling“. Questo consisteva nel pattugliare, tenendo sempre le armi in bella vista, le azioni della polizia, in modo da condizionarne l’operato, impedendo che questa abusasse del suo potere contro le persone di colore che fermava. Altra peculiarità del Black Panther Party fu la lettura della discriminazione dei neri all’interno di un’ottica marxista-leninista di lotta di classe, e quindi di opposizione alla struttura capitalistica della società statunitense […] ».

Terminata la necessaria conoscenza dei personaggi e dell’epoca in cui si inquadra, ritorniamo alla vicenda.

Il nostro Spagnulo, come Nanni Valentini, politicamente orientato verso la lotta di classe, sposò il concetto seguito dal movimento e ritenne di celebrarlo attraverso una composizione a struttura metallica, battezzata Black Panter, forse preconio dei più noti ferri spezzati, i cui significati, anche se spiegati da lui stesso non sono di facile accettazione, tanto da porsi la domanda se la materia sia in grado o meno di esprimere o rappresentare, astrattamente, le aspirazioni umane, ben consci che su un’opera del genere si può dire tutto e il contrario di tutto, con buona pace della critica intellettualoide che domina la scena.

L’Opera, studiata, più volte ridisegnata e simulata in modelli di varie forme, alla fine, ritagliata, calandrata, assemblata ed eretta, quasi un monito all’establishment, finita, restò esposta nel prato a lato del laboratorio di Crippa dove le altre varie opere di Spagnulo disperdevano la loro esistenza, il quale dopo la creazione sembrava quasi disinteressato ed abbandonare le proprie creature

L’opera terminata all’esterno del laboratorio del “Crippone”

Qui comincia la vera storia del manufatto che pareva disturbasse l’armonia del quartiere.

Tornando alle scaramucce paesane e al professor Romano che si sentiva violentato dall’incombenza della scultura chiedendo a più riprese che venisse rimossa, alla quale richiesta, il Crippone, che la ospitava, chiamato in Comune a risponderne, continuamente sollecitato, si limitava a dire che era ormai quasi in corso il trasferimento; finché, dopo l’ennesimo sollecito e la replica del Crippone “ma in due la meti?”, (dove la metto?) il sindaco come battuta rispose, indicando il praticello davanti al Comune “metala li!”.

Detto fatto, poco dopo, a sorpresa, nel praticello antistante il Comune una mattina comparve The Black Panter, che, senza minimamente stonare, faceva bella mostra di sé sul verde dell’erba: una battuta si era trasformata immediatamente in un fatto compiuto.

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The black panther fa mostra di se nello spazio verde a ridosso del Municipio nella vecchia sede di via Gorizia

Si scatenò tutta la canea dei benpensanti alla vista del monumento alla rivendicazione, chiedendosi come potesse essere posto davanti al Comune del “Progresso senza avventure”, insegna della pacifica democrazia (Cristiana) arcorese. Lamenti, rampogne, interrogazioni politiche, solleciti a rimuovere la struttura con urgenza ne furono la logica conseguenza.

Crippa fu convocato con urgenza e invitato a levare di torno il manufatto, ma il tempo passava e ai solleciti la risposta era sempre quella: stiamo provvedendo. Passò qualche mese e le pressioni sul sindaco diventavano sempre più pesanti, finché, un giorno, Crippa si presentò con un pacco di riviste nazionali e internazionali, che inneggiavano all’opera e all’apertura mentale del Sindaco di Arcore che aveva scelto di porre davanti all’edificio comunale un capolavoro di quel livello, e sciorinandole davanti al sindaco: “… lei, signor sindaco, è diventato un personaggio noto nel mondo, e ha posto il paese all’avanguardia nell’apertura all’arte …”.

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Il sindaco di Arcore, Fulvio Ferrario, ritratto negli anni della vicenda narrata

Qualche tempo dopo, sempre il Crippa, trionfante: “Black Panter è in partenza per l’America” e infatti, a breve, fu caricato come trasporto eccezionale, e sparì dal prato. (dove sia oggi materialmente collocato non si riesce a sapere; è aperta la caccia, chi sa parli).

N.R. Al vero abbiamo alcune immagini che ritraggono l’opera lontano da Arcore. Siamo nella condizione di riconoscere il duomo di Modena e certificarne lì la collocazione. In un’altra immagine l’indizio di una libreria Einaudi, al cui esterno è collocata l’opera, riamane infine una terza traccia in altro ambito metropolitano da identificare, con buona probabilità, nella stessa location, con un diverso angolo di ripresa.

Sappiamo da fonti certe, provenienti dalla cerchia dell’artista, che infine l’opera fu acquistata da un privato e si trova a Miami negli Stati Uniti. Confermata quindi l’affermazione del Crippa, quando annunciava la destinazione americana, rimane da ricostruire come tale destino si concretizzò, in relazione alle collocazioni documentate dalle immagini proposte a seguire.

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L’opera sulla piazza del Duomo di Modena

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La libreria Einaudi sullo sfondo

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Un diverso angolo di ripresa nella stessa location della precedente?

Su Spagnulo e il suo Black Panter rimane da dire un’ultima cosa: nel libro di Gillo Dorfles (uno dei maggiori critici d’arte), “Ultime tendenze nell’arte d’oggidall’informale al concettuale” (Feltrinelli 1961-1973), nell’iconografia che illustra l’esposizione dell’argomento,  è presentata la scultura  Black Panter, non solo, ma tra i 100 pittori e  scultori più importanti nel mondo, sempre secondo Dorfles, con Manzoni, Pistoletto, Gnoli, Merz,  uno dei pochi italiani citati, aventi una quotazione, e  un mercato internazionale a quel tempo,  era proprio Giuseppe Spagnulo. Quindi: Ipse Dixit

LUIGI CRIPPA

Abbiamo ripetutamente parlato di Luigi Crippa, nella sua veste di “mecenate”, nell’ospitare Spagnulo, mettendo a disposizione il suo laboratorio, e dell’onere nella disbriga della faccenda con le autorità, per trovare una collocazione alla maestosa opera. Un personaggio che merita, a sua volta, qualche ulteriore approfondimento, non fosse altro  per la sua arte di corniciaio e per la sua generosità.

Scrivono Valtolina-Rossin:

«… C’era una volta un corniciaio. E questa storia inizia come una favola per quel tanto di epico e di quasi fantastico che i vecchi racconti si portano dietro, così come le mani sapienti di un artigiano. Il corniciaio lo chiamavano tutti “Masama” e quel nomignolo era la parte rimasta di “ma sa ciama” – come si chiama – la domanda che lui rivolgeva diritto e diretto a chiunque si presentasse nel laboratorio. E loro, gli artisti, a turno rispondevano. Lucio Fontana. Piero Manzoni. Piero Dorazio. Nanni Valentini. “Masama” all’anagrafe Luigi Crippa e parlava solo brianzolo.

 Eppure le sue mani sapevano fare quello che gli artisti volevano e chiedevano: le cornici migliori. Lì, attorno al suo laboratorio di Arcore, si era creato un cenacolo di artisti come forse quel pezzo di Brianza non ha mai più visto. Nanni Valentini era uno di loro ed era arrivato ad Arcore negli anni Sessanta. Ma non era stato incantato dalle sirene di Masama. Era stato il metano a convincerlo, perché allora non era così facile da trovare nelle case. Per lui, però, era indispensabile: doveva cuocere, cuocere a temperature superiori a mille gradi, nessuna alternativa. E allora Arcore. Con le Marche, Parigi, Bologna e le visioni di Fontana sulle spalle…»

E scrive Paolo Schiavocampo, artista:

«… Mentre ero a questo punto venne nello studio Luigi Crippa, portato non ricordo da chi. Luigi era un brianzolo di Arcore e faceva il corniciaio, era un ercole e amava si entusiasmava alle cose fino alle lacrime. Mentre io spiegavo il quadro vedevo la sua animazione crescere e il suo muoversi divenire frenetico, poi disse: “ti faccio io il telaio e non voglio soldi”. Giorni dopo arrivò con un telaio super, il più bello che abbia mai visto e anche il più grosso. Le aste di cui si componeva avevano uno spessore eccezionale, il legno era magnifico; un autentico lusso, non aveva badato a spese. Era di 4 metri per 2 e lo montammo insieme religiosamente poi vi mettemmo su la tela. Io ero commosso, era il più bell’omaggio al mio lavoro che avessi mai avuto ed è ovvio che diventassimo grandi amici. Lui ebbe una parte importante per la mia attività artistica anche in seguito …»

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Il monumento funebre che contiene le spoglie di Luigi Crippa opera dei due artisti Nanni Valentini e Giuseppe Spagnulo

Un’ultima nota su Crippa che da Mecenate sosteneva l’arte e gli artisti in cerca di gloria. La riconoscenza di Valentini e Spagnulo si manifestò nell’opera che adorna tuttora la sua tomba: uno dei famosi “Ferri spezzati” di Spagnulo è posto sul piano ortogonalmente al pannello che riassume alcune delle infinite esperienze artistiche di Valentini.

ULTIME

Abbiamo cercato di prendere contatto con Giuseppe Spagnulo. Ha il suo studio a Gaggiano, nell’hinterland milanese. Nell’area verde che inquadra la via, dove a fianco di altre attività produttive artigianali, tiene il suo studio, sono collocate alcune sue opere di dimensioni ragguardevoli, che proponiamo nella breve sequenza che segue.

In questi giorni, all’alba degli ottant’anni, ci dice Andrea Spagnulo, parente dell’artista, che il “maestro”, non è in forma perfetta e dunque attendiamo tempi migliori per poter aggiungere qualche personale ricordo dell’autore del “Black Panther” alla vicenda e completare questo scorcio degli anni ’70 e dell’occasione mancata per Arcore, di esporre in “plain air”  un’opera della prima ora di Giuseppe Spagnulo, che  iniziato il suo percorso artistico nel nostro paese, sarebbe arrivato molto lontano.