Bisognerà vedere che cos’è (Miracoli a Ornago)

Bisognerà vedere che cos’è (Miracoli a Ornago)

di

Paolo Cazzaniga

Dal cassetto in cui giace dall’estate scorsa e da un poco brillante passaggio a “Accade a Ornago”  propongo ora il racconto, “Bisognerà vedere che cos’è”,  in cui come sempre mischio storia e fantasia. Anche quella primavera del 1714 si era annunciata calda, tanto che ad Aprile si parlava già di siccità. Partendo dalle parole piene di presagio, dell’Anna Maria madre del Pietrino Redaelli, rivolgo anche a voi l’invito a “vedere che cos’è”, esteso anche a quanto ogni giorno si affaccia davanti a noi e solo con il giusto spirito critico, privo di preclusioni, ma allo stesso tempo fermo e deciso, possiamo valutare con correttezza il valore e il significato delle cose.

santuario esterno

Il santuario di Ornago, al centro del racconto proposto

BISOGNERA’ VEDERE CHE COS’E’

Sebastián de la Cueva, nella natia Granada, indirizzato dal precettore, la cui perizia ed ancor più i tratti somatici ne segnavano l’origine araba, aveva fatto germogliare in lui una fervida passione per la matematica che infine era stata ricondotta a quella praticità necessaria del vivere quotidiano. Il giovane intraprese, senza entusiasmo, la carriera di funzionario dell’erario, impegnato nello stimare l’entità dei beni dei contribuenti e, per la consistenza di questi, stabilire le tasse da esigere. Suo malgrado Sebastián aveva raggiunto l’Italia al servizio della Corona di Spagna ed ora si trovava a vagare per il ducato di Milano col compito di scovare le recondite ed anche misere ricchezze, inventarsi le più impossibili tassazioni che mente umana potesse architettare e vessare, a non finire, una popolazione già spremuta a dovere. La sua passione per la matematica non era scemata e la soluzione di arzigogolati quesiti matematici, che lui stesso s’inventava, erano un irrinunciabile divertimento. Figurarsi le maledizioni lanciate in spagnolo e giusto, visti i suoi trascorsi da studente, anche in arabo, una volta lasciata Milano in quella calda estate in cui una nuova e non ancora ben accertata epidemia sembrava insinuarsi nella città e nel contado. Doveva salire verso nord alla ricerca di fonti di reddito non ancora inventariate. Erano alcuni giorni che si sentiva stanco; anche i suoi teoremi lo trovavano svogliato e con poca attenzione. Fu la mattina al risveglio, in quella stamberga nei pressi di Ornago dove la sera avanti aveva trovato alloggio, quando si rese conto che l’epidemia l’aveva contagiato. Capì che non avrebbe avuto scampo. Non cercò di riguadagnare la città, nonostante la sua posizione di funzionario statale glielo avrebbe permesso, e consumò la sua fine nel lazzaretto allestito fuori del bosco grosso nella “brughera del comune di Ornago”. Lì senza gloria e con una veloce prece fu sepolto. La stessa fine era toccata al giovane organista Rocco. Era stato ingaggiato dalla veneranda Scuola della Beata Vergine del Rosario di Vimercate, per la festa di San Stefanino in quell’agosto avvelenato, in sostituzione del noto maestro d’organo Girolimo Mondondone che, vista l’aria forse gia ammorbata, aveva preferito, condotto dalla sua fama, respirarne una più pulita. Ora sulla via del ritorno, Rocco voleva riprendere il barchetto a Villa Fornaci e riguadagnare la natia Milano attraverso il naviglio della Martesana. Gli fu fatale il crodello, per altro scadente, nella pausa presa all’osteria di Ornago, posta al limitare del bosco grosso che doveva attraversare. Il contagio, montato sempre più virulento, l’aveva avuto fra le sue vittime. Non c’era stato verso, nonostante le sue insistenze: le autorità sanitarie, sorde ad ogni ragione, l’avevano costretto nel recinto degli appestati. Aveva sperato inutilmente, fino all’ultimo, di “veder spiccarsi da quel lazzaretto più candide colombe”, come gli avevano raccontato durante le sue esecuzioni vimercatesi. Nel borgo l’eco del miracoloso volo, che aveva decretato la fine del flagello, pochi mesi prima, era ancora vivo. Dunque nello stesso “foppone”, la matematica dello spagnolo e le competenze del giovane organista si mescolarono in quel crogiolo che pareggia tutto, che è la morte. Grandi speranze troncate e tanta vitalità soffocata, poco alla volta ma con determinazione e costanza, cercarono di riemergere dagli abissi in cui erano piombate, sino a che, quel 19 Aprile 1714, Pietro Redaelli, in compagnia di due coetanei, mentre raccoglieva sterpi da bruciare per il forno del pane, in quel caldo mezzogiorno di primavera, colse un sollievo sotto i piedi nudi. Incredulo si fermò e, come poi raccontò al prevosto di Vimercate, “col piede premendo il terreno abbiamo veduto sortire acqua pel dove l’herba era secca, dopo facessimo un foppello con un rampineto del mio compagno e beutane si partimmo sul dosso a far legna andando unitamente a casa”. Una volta giunto a casa, Pietrino, come lo chiamano gli amici, non sta nella pelle ed informa la madre. L’Anna Maria è prudente ma pronunzia una frase piena di presagio “Bisognerà vedere che cos’è”. Nei giorni seguenti Pietro, ancora inconsapevole, comincerà a vivere quel “che cos’è” che tanto era stato a cuore a sua madre. Passato lo strepito dei primi giorni, delle successive deposizioni dei testimoni, dei dinieghi della Curia, delle istanze degli ornaghesi decisi a farsi riconoscere l’origine miracolosa dell’acqua e dei suoi prodigi, la vita del giovane Pietro prenderà una piega inaspettata. Tali eventi, esulando dagli aspetti inquisitori delle indagini, sfuggiranno alla meticolosa stesura dei verbali, ma non per questo saranno meno prodigiosi e singolari di quanto ci è stato tramandato nel racconto dei fatti, raccolti nelle tre indagini ecclesiali. Pietro aveva bevuto di quell’acqua anche nei giorni successivi e poi ancora. Il giovane cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini: non aveva mai brillato alle lezioni che saltuariamente improvvisava alla bella e meglio il Don Sandro per i giovani del paese ed ora era uno stupore vedere i progressi, sia per l’Anna Maria che per il padre Giacomo. Questi decise d’avviare il figlio “a bottega” con qualche anticipo su quanto normalmente si faceva. Pinetto il falegname si rese conto di avere fatto un ottimo affare: poteva delegare a Pietro persino i calcoli necessari a realizzare i progetti più complicati di cui si faceva carico. Era stupito delle ingegnose soluzioni escogitate dal giovane.

fonte 2

….di raggiungere la sorgente e attinta giusto un po’ di quell’acqua….

Pietro non tralasciava, di tanto in tanto, di raggiungere la sorgente e attinta giusto un po’ di quell’acqua, ormai riconosciuta miracolosa, era certo che nel breve volgere avrebbe risolto brillantemente anche l’ultimo lavoro assegnato. Panche, manici per le vanghe, e qualche rara madia per la farina andavano ormai strette al talento di Pietro. Si seppe del notaio Rusca, che tanta parte aveva e ancor più ne avrebbe avuta in futuro nella vicenda del santuario che si voleva edificare. Era alla ricerca di un artigiano in grado di realizzare un organo che riempisse di “suoni celestiali” l’edificando santuario. Il Pietro Redaelli si presentò al notaio con la sicumera di ricevere l’incarico. Il Rusca, uomo di cultura e dall’animo sensibile e generoso, vista anche l’effimera ma recente “notorietà” di Pietro, pensò di prendere tempo e chiedere al giovane di stilare un progetto il più completo possibile, da sottoporre ad una commissione che avrebbe deciso il da farsi. Pietro dovette ripetutamente abbeverarsi alla “fonte del sapere”, ma infine consegnò un corposo progetto. Stupito del risultato conseguito il giovane, meno il Rusca, che al vero infilò lo scritto fra altre sue carte senza degnarlo di una vista, nella certezza che il Pietro mai avrebbe potuto mettergli in mano un progetto concretamente realizzabile. Vediamo ora di raccogliere le idee e riassumere la situazione. E’ giusto il momento di fare il punto. Sfogliando il progetto di Pietro possiamo essere, anche se non addentro al mestiere, stupiti dagli innumerevoli calcoli matematici e dalle precise soluzioni sonore descritte. Abbiamo la certezza, a questo punto, che il funzionario spagnolo, Sebastián de la Cueva, con il pallino della matematica e il “giovin” organista di Santa Radegonda, Rocco, si trovassero nella stessa posizione di quelle due anime purganti che svettano, tra le altre avvolte dalle fiamme, nel dipinto della Beata Vergine del Lazzaretto di Ornago, pronte dunque a lasciare la compagnia per approdare ad altri lidi.

dipinto

…si trovassero nella stessa posizione di quelle due anime purganti che svettano, tra le altre avvolte dalle fiamme, nel dipinto della Beata Vergine del Lazzaretto di Ornago, pronte dunque a lasciare la compagnia per approdare ad altri lidi.

Cosa accadde poi è presto detto. Il Rusca si dimenticò del progetto di Pietro; lo stesso, resosi conto di come la sua vena andava prosciugandosi, rientrò nei ranghi e, sposata una buona figliola, continuò l’onesto e redditizio lavoro appreso, fabbricando botti e riparando armadi e sedie. Alla morte del Rusca, viste le precise e dettagliate disposizioni lasciate, il fattore Antonio Villa, scrupoloso, sistemò tutte le carte del notaio e, rinvenuto il progetto dell’organo, lo inventariò nel corposo carteggio relativo al santuario nel frattempo eretto. Quando poi, verso la fine del settecento, i curatori testamentari del Rusca, i nobili Verri, diedero il la alla realizzazione dell’organo, ligi come il testamento del notaio prescriveva, ebbero l’accortezza di scandagliare eventuali disposizioni in materia, consegnando lo scritto del progetto al costruttore ingaggiato per l’organo. Quest’ultimo, nel soppesare dubbioso il corposo scritto, immaginava la ridda di prescrizioni, orpelli, sanzioni contenute nelle carte del notaio. D’altronde questo era il tenore con cui il Conte Verri aveva presentato il carteggio all’artigiano. A discolpa il fatto che le poche persone, che avevano avuto per le mani il progetto di Pietro, non erano arrivati a sfogliare se non le prime due o tre pagine. Immediatamente, i fogli successivi inondavano l’organaro di calcoli e formule, che fluivano ricoprendo interi fogli. L’imbarazzo per l’impossibilità di dare un senso a quello scorrere, si placava quando, a compendio di tante operazioni matematiche, un disegno e la precisa descrizione di un particolare dell’organo lo rassicurava, restituendo alla sua mente suoni e tonalità che immaginava avrebbero inondato il Santuario della Vergine. L’intero manoscritto di Pietro era già musica viva per l’organaro: un movimento ciclico si ripeteva e ogni chiusura aggiungeva una nuova soluzione innovativa, che avrebbe contribuito, ne era certo, alla riuscita dello strumento i cui successivi restauri e rifacimenti hanno condotto all’organo usato ancora oggi per l’esecuzione di virtuosi concerti condotti all’interno del santuario.

NOTA:

immaginattaNei pressi del sito denominato il “Lazzaretto”, territorio d’Ornago, pieve di Vimercate dove una cappelletta ricordava i morti delle epidemie di peste dei secoli XVI e XVII, tre ragazzi, tra cui Pietro Redaelli, il giorno 19 Aprile 1714 portano alla luce una sorgente d’acqua, i cui poteri taumaturgici, riconosciuti dopo diverse indagini dalla Curia milanese, daranno origine all’edificazione del Santuario della Beata Vergine del Lazzaretto d’Ornago. Pietro Antonio Rusca notaio milanese con proprietà in Ornago si mostrerà parte attiva, sia nelle indagini ecclesiali citate, sia grazie al suo lascito testamentario, alla successiva gestione del santuario. La nobile famiglia Verri sarà l’esecutore testamentario delle volontà del Rusca.
All’interno del santuario, una sacra immagine “miracolosa”, mostra le anime purganti, avvolte dalle fiamme che invocano la Madonna, affinché ottengano il perdono. L’organo, del santuario costruito verso la fine del 1700, fu rifatto nel 1809 da Alessio Amati. Nel biennio 1996-97 l’organo è stato restaurato da Giuliano Pedrini.
Fin qui la storia…