ARCORE “I MORT LUNGH”

ARCORE “I MORT LUNGH”

A naturale seguito, del post che descriveva “ul Ravanel”,  l’amico Tonino Sala, ci riserva la presentazione di un altro angolo suggestivo di Arcore. Appena fuori dal parco, appunto in prossimità del luogo citato, incontriamo i così detti “mort lungh”, un luogo a ricordo delle vittime delle pestilenze dei secoli passati, non esclusa quella “manzoniana”. Un’ulteriore tessera di un mosaico, che poco alla volta ci porta alla scoperta, mai scontata, del nostro territorio.

MORT LUNG

AI  MORT  LUNGH

 In pratica questa è la continuazione del racconto precedente che cominciamo con la visione del percorso della roggia, alla quale abbiamo già accennato, che porta il nome che caratterizza il luogo nel quale per secoli furono inumati i morti delle ricorrenti epidemie di peste. La mappa riprodotta è del 1897. Oggi la roggia non è più visibile, a partire dall’incrocio con Via Monte Bianco, è stata intubata e seppellita, Ci si accorge della sua esistenza solo in tempi di piogge eccezionali quando esonda dal primo tratto proveniente dalla collina e dopo aver colmato i terreni ai lati di Via Gran Sasso, invade la strada per Peregallo e sfocia nel prato a lato della antica ‘strada del Vignone’, oggi via senza nome, prima di disperdersi per le campagne verso il Lambro.

La cappellina che contraddistingue oggi la località “ai Mort lungh”, come è stato detto, è inserita nella recinzione del parco comunale. Ma andiamo con ordine. Quello che segue è un modesto racconto compilato e distribuito una ventina di anni fa, su richiesta di don Luigi Gaiani, al tempo Parroco di Sant’Eustorgio, in occasione di una di quelle processioni “ai Mort Lungh” ad invocare la pioggia, per dare ai partecipanti una testimonianza sul senso di continuità e legame nella tradizione e nella fede.

 Senza nulla cambiare, correggere o aggiungere, è quello che segue.

INTRODUZIONE

Nella mente di chi ha vissuto altre realtà arcoresi rimane sempre presente quella Croce piantata sul limitare destro del fosso all’imbocco della strada per la “Palazzina” (il luogo dove trovarono sepoltura gli appestati delle varie epidemie che “un paio di volte per secolo provvedevano a riduzioni drastiche delle popolazioni”), a ricordo dei “Morti del Contagio”, che proprietari ed amministratori improvvidi non ritennero di salvaguardare nemmeno in altro luogo. Fu rimossa una “memoria” e un’altra testimonianza della scarna storia locale venne cancellata .

La piccola cappella – più a nord, eretta al culto di questi morti dalla pietà popolare (in un primo tempo isolata, poi integrata nella recinzione della proprietà D’Adda nel 1840-1845, dopo le nuove acquisizioni del 1809 e il nuovo disegno dei giardini fatta dal Balzaretti), meta di umili preghiere nascoste, di dolorose confidenze sussurrate ai propri antenati e di innumerevoli, fervide processioni ad invocare aiuto e protezione alla speranza del raccolto – più volte riparata e qualche tempo fa, da privati, restaurata, è sottoposta in questi giorni ad intervento di pulitura al quale seguirà la dipintura di una appropriata decorazione a valorizzarne il significato ed a stimolare riflessioni sulle mete ultime dell’umano divenire.

i mort il luogo

IL LUOGO

Inquadramento fisiografico

La zona nota come “ai mort lungh” occupa il margine pedecollinare dei bassi rilievi che, sconvolti e ricomposti nelle glaciazioni del quaternario, delimitano il piano sudovest del territorio arcorese fino ai confini con Lesmo, il Lambro e Villasanta.

La fine della glaciazione lasciò terreni sassosi misti di argille e ferretti, residui del primitivo “diluvium” (pleistocene) evolutasi nel tempo in brughiere (muschi, felci, erica, brugo, ginepro, ecc.),  poi in foreste di olmi, querce e conifere di pianura, solcate da rogge e fossi incanalanti il displuvio collinare verso il Lambro e la Molgorana.

Sentieri, generati dal calpestio della fauna, formavano le tracce sulle quali i primi gruppi umani al seguito della selvaggina percorrevano il territorio.

i mort mappa


EVOLUZIONE STORICA

L’avvento di nuove tecnologie trasmesse dall’incontro con gruppi umani più evoluti consentì il passaggio, da una economia di solo caccia e raccolta, all’allevamento e all’agricoltura. Gli stanziamenti fissi e il lavoro generarono il concetto di proprietà, di clan, di tribù e di popolo. Si succedettero Liguri, Etruschi, Celti e Romani. Le foreste, già parzialmente abbattute per farne combustibile per le fornaci di ceramica e metallurgia, furono bonificate e messe a coltura e il paesaggio, almeno nelle sue grandi linee, prese l’aspetto che conservò fino agli anni 40-50 del secolo scorso, prima della rivoluzione industriale: campi coltivati, boschi di collina, boschi di pianura lungo i corsi d’acqua e ai confini dei paesi e radi insediamenti urbani, vere e proprie isole disperse nel territorio.

Le zone di pascolo e foresta restarono di proprietà comune prima dell’usurpazione di nobili e barbari che in più riprese spogliarono le comunità.

Le invasioni barbariche riportarono le cose all’anno zero: i campi abbandonati inselvatichirono, la foresta riprese il sopravvento: la prevalenza di querce e la notevole disponibilità di ghiande favorirono lo sviluppo della suinicoltura nella quale già Etruschi e Celti erano stati maestri. Il normalizzarsi della situazione e le accresciute necessità alimentari riconvertirono i terreni all’agricoltura. Gruppi di monaci, riunendo i residui dispersi dell’antico popolo, colonizzarono di nuovo il territorio. Lungo il Lambro ricominciarono a girare i molini i cui residui integravano la dieta degli allevamenti suini. I maggiori proprietari fondiari furono i conventi; i contadini erano prestatori d’opera o affittuari e proprietari di piccoli appezzamenti (nell’ordine dell’una o due pertiche); residui di foresta e pascoli erano ancora proprietà comune.

i mort mappa arcore


IL PAESE

Dopo gli originali insediamenti dei Liguri, poco più di piccoli raggruppamenti di capanne, la penetrazione degli Etruschi, portatori di civiltà più evolute, venne trasformando la regione: canalizzazioni e strade bonificarono e resero possibile la colonizzazione dei terreni tracciando anche la prima grossolana suddivisione degli agglomerati con i territori di competenza.

L’arrivo di numerose tribù di Celti (Galli) riportò il tempo parzialmente all’indietro: la cultura della caccia e dell’allevamento prevaleva sull’agricoltura. La struttura organizzativa sociale era incentrata sulle famiglie nobili attorno alle quali guerrieri, liberi artigiani, schiavi, aldi, semiliberi e clienti costituiva il villaggio. Spesso i nomi attribuiti ai luoghi, per assimilazione, ricalcavano, nella deformazione della lingua del posto, il nome dei loro luoghi di origine.

La conquista romana venne a dare il carattere definitivo alle attribuzioni territoriali dei vari villaggi. Il territorio, dapprima coperto da centri fortificati col compito di presiedere ed amministrare, fu interamente diviso (centuriazione) ed assegnato a soldati, coloni, nobili e latifondisti. Attorno ai “castra” si formarono centri di aggregazione che ebbero funzioni di cellule germinali nella nascita dei paesi, mentre attorno sorgevano le ville dei padroni agricoltori.

L’avvento del cristianesimo, sullo schema della organizzazione romana divise il territorio in diocesi, le diocesi in pievi e le pievi in cappellanie, dove sacerdoti itineranti, domiciliati nelle pievi o nella diocesi, periodicamente si recavano per i sacri riti. Piccole, modeste cappelle sorsero ex novo o per riqualificazione di precedenti are o templi pagani.

Le invasioni barbariche cancellarono tutto. I paesi si spopolarono, le campagne furono abbandonate e ritornò la foresta. Nel corso dell’VIII – IX secolo gruppi di monaci vennero chiamati dai nuovi padroni, Longobardi e Franchi, mediante donazioni modali, a colonizzare di nuovo il territorio: artigiani e contadini confluirono intorno a questi monasteri e conventi formando, sui ruderi dei precedenti, l’impianto dei nuovi paesi.

Lo schema abitativo definitivo vede il villaggio costituito da corti chiuse attorno alle abitazioni dei padroni (nobili, possidenti); disperse nella campagna le frazioni, dimore di altri padroni e coloni, e i monasteri. L’architettura è misera, casupole basse, a un solo piano, nella maggior parte dei casi con tetto di paglia: costruzioni con pareti miste di legno, mattoni e sassi legati da calce.

 Bisogna arrivare a san Carlo Borromeo, e alla erezione delle cappellanie in parrocchie con l’obbligo di tenuta dei “Libri”, per avere una identità della popolazione. Per Arcore una idea chiara di chi fossero gli abitanti risulta dall’analisi del primo “Libro dei matrimoni” dove il nostro primo curato che si proclama “Rector de la Geisa” annotando per oltre una trentina d’anni (1566-1603) nomi di sposi, genitori e testimoni compila, indirettamente, una primitiva anche se pur  incompleta anagrafe:

i mort libro matrimoni

Si tratta di 115 cognomi diversi, per un totale di 511 persone citate, che ricalcano in buona parte la toponomastica brianzola, spesso scritti con forme e sgrammaticature varie, a volte correlati del soprannome. Nella quasi totalità sono preceduti dal genitivo o dal complemento di provenienza nel loro totale assortimento grafico:” d’, de, d’ l’, de l’, del, d’ la, de la, dela “.

TABELLA

Nonostante le storpiature fatte dall’estensore (dobbiamo ricordare che spesso la trascrizione in lingua è fatta sulla pronuncia dialettale di un nome già deformato al quale si cerca di dare una forma italianizzata), per molti cognomi, la traduzione nella forma attuale è elementare e immediata, per altri l’impossibilità di soluzione dei rebus calligrafici lascia l’incertezza dell’esatta interpretazione, per altri ancora vi è il dubbio che non si tratti di cognomi ma di soprannomi o complementi di provenienza.
I cognomi di sposi e testimoni costituiscono il seme attorno al quale si sono sviluppate alcune genealogie degli arcoresi di oggi. Molti sono totalmente spariti da Arcore, forse per esaurimento o per effetto delle pestilenze o di emigrazioni, altri si sono ben diffusi e costituivano, fino a pochi anni fa, la preponderanza della popolazione.

Quanti fossero gli arcoresi di allora è calcolabile attraverso il numero medio dei matrimoni per anno:

la stima, per la prima frazione del periodo indicato (1566-1571); ci si ferma al 1571 perché poi, per 9 anni non si celebrarono matrimoni, che rileva una celebrazione media di 5,8 matrimoni, è presto fatta:
considerando:
-l’età media delle coppie attorno ai 22 anni,                                              255
-la sopravvivenza fino all’età matrimoniabile pari al 50% dei nati,            130
-i genitori per famiglie con una media di 4 figli,                                        195
-scapoli, nubili, vedove e vedovi, vecchi,                                                      30
si ha un totale di circa                                                                                 600 individui


LA PESTE

Cosa è :

L’agente eziologico (causante) della peste è un batterio immobile, asporigeno e gram-negativo, la Pasteurella Pestis, scoperto a Hong-Kong dal francese Yersin nel 1894 e quasi contemporaneamente dal batteriologo giapponese Kitasato è pertanto noto come “Bacillo di Yersin e Kitasato”, che viene trasmesso all’uomo dalle pulci del ratto e di qualche altro roditore (Xenopsilla Cheopis, nei paesi caldi, Ceratopsyllus Fasciatus, in quelli temperati) oppure, nella forma polmonare, direttamente per contagio interumano.

Clinicamente la peste può manifestarsi in tre forme: bubbonica (letale nel 30-70% dei casi) setticemica (90-95%) e polmonare (100%).

La forma bubbonica inizia bruscamente, dopo un’incubazione da uno a sei giorni, con febbre elevata, cefalea, vertigini, vomito, delirio; dopo poche ore compare alle ascelle, all’inguine o al collo il caratteristico bubbone, generalmente unico, molle e dolorosissimo alla palpazione accompagnato da adenite alle linfoghiandole circostanti. La malattia evolve entro una settimana, nei casi non letali, il bubbone si riassorbe o si apre.

La forma setticemica, in genere secondaria a quella bubbonica è caratterizzata da febbre poco elevata, da grave compromissione dello stato generale e da imponenti segni nervosi a cui spesso si associano emorragie cutanee, mucose o viscerali (peste nera).

La peste polmonare può verificarsi primitivamente o come conseguenza della peste bubbonica, inizia improvvisamente, con la sintomatologia di una polmonite o di una broncopolmonite, dura da uno a tre giorni ed è, oltre che la più grave, anche la più contagiosa poiché l’espettorato è molto ricco di bacilli pestosi.

 Breve storia del contagio:

Nell’antichità il nome di peste è usato per indicare tutte le malattie epidemiche che avevano un elevato tasso di mortalità; pertanto è difficile poter dire, ad esempio, se la peste di Filistei (1400 a.C.) o quella celebre di Atene (429 a.C.) descritta da Tucidide o le altre vari forme pestilenziali che infierirono nel Mediterraneo orientale ed in Asia Minore siano state vere e proprie epidemie di peste. La prima sicura pandemia pestosa si ebbe nel 542 d.C., sul litorale mediterraneo (peste di Giustiniano): colpì l’Egitto, l’Africa del nord, la Palestina, la Siria, Costantinopoli, l’Italia, la Gallia e la Germania. Le successive epidemie che colpirono l’Europa e l’Oriente fino agli inizi del XIV secolo non sono state chiaramente identificate con la peste. Nessun dubbio che si sia trattato di questo morbo per la pandemia dilagata verso la metà del XIV secolo, nota come Peste o Morte nera. Probabilmente originata in India, si propagò attraverso l’Asia Minore nel Mediterraneo, risalendo fino in Inghilterra, Germania e Polonia e provocando, con il decesso di 25 milioni di persone in Europa, 23 milioni in Asia, la più elevata mortalità per epidemia che abbia registrato la storia. In Italia essa infierì particolarmente nel 1348, come è testimoniato anche dal Boccaccio (Decameron). Dopo questa seconda epidemia la peste rimase endemica in Europa per alcuni secoli. Nel 1466, manifestatasi in Tessaglia, si diffuse particolarmente in Macedonia e in Tracia, causando a Costantinopoli fino a 600 morti al giorno. Nella stessa epoca anche l’Europa dovette soffrire per tale flagello: una pandemia abbastanza grave colpì nel 1478 Venezia, dove cominciò peraltro ad applicarsi una profilassi antipestosa (lazzaretti, ispezioni, quarantene). Epidemie di rilevante entità si ebbero a Milano nel 1576 -1577 (peste di s. Carlo) e nel 1629 -1630: quest’ultima descritta da Manzoni nei “Promessi Sposi”, ridusse la popolazione milanese da 250 000 a  60 000 unità. Venezia, al contrario, grazie alla rigida applicazione di un cordone sanitario, fu colpita mano duramente. Né mancarono, nell’incombere di così gravi calamità, fantasiose credenze popolari sull’origine e sul diffondersi della peste: molto nota quella degli “untori” (anch’essa testimoniata dal Manzoni).

LA PESTE AD ARCORE

 I documenti parrocchiali

E’ storico che le pestilenze due o tre volte per secolo facevano visita anche nei nostri paesi. Non sono però disponibili documenti, notizie o tradizioni che possano dare indicazioni circa l’epoca esatta, la presenza e l’entità del contagio nel luogo. Qualche notizia documentata è invece rintracciabile per le ultime due (1575-1577 e 1629-1630) che colpirono il nostro territorio.

Nell’ambito dei “Libri parrocchiali”, mancando il “libro dei Morti”, iniziato solo a partire dal 1643, si può dedurre la presenza del contagio solo da alcune scarne notizie.

Nel periodo della prima pestilenza [1576-1577], quella chiamata “peste di san Carlo”, dal primo “Libro dei matrimoni” risulta che tra il 1572 e il 1580 non venne celebrato alcun matrimonio e che nel decennio successivo, una volta ricompattati i vedovi, la frequenza media delle celebrazioni fu di 2,8. Ciò consente di calcolare la consistenza demografica del paese alla fine dell’epidemia: secondo lo schema di calcolo usato più sopra: risulta che gli abitanti erano ridotti a metà: quindi i morti sarebbero stati circa 300.

Per la seconda pestilenza (1629-1630), come è noto preceduta da anni di gravissima carestia,  (vedere la descrizione che ne fa Manzoni al cap. xxviii del suo romanzo), nel “Libro dei battesimi”, il curato del tempo (Gioseffo Berta) annota in alcuni casi che la cerimonia fu officiata in casa “per sospetto di pesti” o anche “alle Gabane” il rudimentale lazzaretto, impiantato all’incirca nella zona dove sorge ora la cappella, dove venivano convogliati gli ammalati e i sospetti di peste: Usando lo stesso criterio di usare come indice il numero dei matrimoni celebrati e applicando lo schema di calcolo già visto, confrontando poi i dati ricavati del pre e post peste, risulterebbe un numero di morti pari a circa 150/200.

i mort libro battesimi

i mort libro battesimi 2

Le gabane

L’uso di isolare i contagiati, imposto dalle autorità sanitarie, era un procedimento molto antico che rientrava già nello schema organizzativo delle società primitive; anche per il nostro paese la storia del contagio si svolse in modo analogo: costruzione di primitivi agglomerati di capanne dove gli ammalati trascorrevano una specie di quarantena, sorvegliati e curati da chi dal morbo era immune, da parenti e da volontari che non esitavano a sfidare il rischio di contrarre il male.
Il luogo dove fissare queste costruzioni (semplici capanne di tronchi e frasche) doveva essere sufficientemente lontano dal paese e il bosco, che avvolgeva allora l’intera fascia collinare, offriva condizioni di isolamento sufficienti. Lo sconvolgimento subito dalla zona, dopo l’integrazione della proprietà dell’abate d’Adda, l’ampliamento con nuove acquisizioni, lo sbancamento di 160.000 metri cubi di terra, a formare quello che oggi costituisce il parco comunale, non consente di identificare il luogo dove era impiantato il lazzaretto, anche se è da ritenere che nelle varie pestilenze il luogo poteva variare da un posto all’altro, più o meno lontano proporzionatamente al grado di paura che il fenomeno generava.

i mort lazzaretto

I fupon

Nella preponderanza dei casi il contagio portava a morte il colpito e la necessità di trovare spazi e terreni adatti per le inumazioni costringeva ad “inventare” soluzioni specifiche. I morti, in condizioni normali, erano sepolti in cimiteri attorno alle chiese, a volte nelle chiese stesse, dove, in appositi sotterranei attrezzati a colombari, le salme venivano deposte e dopo un congruo lasso di tempo rimosse e passate in un ossario comune. Ma nel caso di una così grande necessità, una volta scelto il luogo, venivano scavate grandi, profonde fosse dove i cadaveri erano deposti l’uno accanto all’altro avvolti in semplici teli, man mano coperti da strati di terra e sopra questa altri morti e altra terra fino al riempimento.

i mort ul fupon


I SEGNI DELLA MEMORIA

 

La croce di ferro

In quasi tutti i paesi del circondario croci o lapidi segnano questi luoghi. Anche ad Arcore, sul limite della strada per “La Palazzina”, una modesta croce inastata, in ferro, era posta nel luogo dove abitualmente venivano sepolti i morti di peste e una scritta posta sotto la croce ricordava il fatto “<i>Morti del contagio – 1300”. Pietà popolare e devozione antica da una generazione all’altra ne custodivano l’integrità e la memoria: I Crippa della Palazzina provvedevano alla manutenzione periodica e il monito sulla precarietà del vivere induceva riflessioni nel presente. La croce è stata sfrattata, Il ricordo dei morti cancellato; invasioni di nuovi barbari hanno provveduto a distruggere le memorie e in quel luogo, sopra i loro sepolcri, i segni dell’opulenza privata hanno annegato la tradizione della comunità

 i mort croce

Cappelle e altarini

Nell’ambito dei luoghi di degenza era uso costruire piccoli altari, appena segnati da umili croci, dai quali invocare la misericordia o la rassegnazione, ed è appunto da questi che traggono origine molte cappelle disperse per le campagne, diventate nel tempo meta di processioni e pellegrinaggi.
Anche ad Arcore, quasi certamente nei luoghi dove sorgevano quei primitivi lazzaretti, vi erano modesti altarini al bordo di primitivi sentieri che attraversando il bosco collegavano il paese con Lesmo.
Sul retro nord della recinzione del parco, a bordo del “Campo d’oro” partiva un sentiero che inoltrandosi nel bosco, e biforcandosi più avanti, collegava a lato est la Cazzola e a lato nord, sul retro della collinetta che sovrasta la Palazzina, il primo terrazzamento del territorio di Lesmo. Appena all’imbocco del sentiero, prima del riassetto conseguente alla costruzione della recinzione del “Giardino” d’Adda, addossata ad una quercia, era collocata una croce a indicare, il primitivo e più antico luogo di isolamento e sepoltura degli appestati. Questo segno fu poi collocato nella nicchia ricavata nella recinzione a costituire un minuscolo altarino: proprio nel luogo dove oggi, distrutto dal tempo e dall’incuria, si vedono immagini sacre appiccicate al tronco di un albero (reminiscenze celtiche del culto druidico della quercia rimaste nel DNA degli abitanti del luogo?). Questo luogo, finché la mura fu in piedi, nel gergo arcorese era identificato come “segonda madonina”, meta di solitarie peregrinazioni, di colloqui con gli antenati, di invocazioni, di pianti, di speranze nell’impossibile, accompagnati da semplici offerte floreali.

i mort altarino

La cappellina vera e propria, quella cioè che vediamo oggi, ha una storia simile, anche se leggermente diversa.

Fronte a sud ovest, sul limitare della collina, Immerso nella brughiera, nel luogo dove era installato il ricovero per i contagiati, eretto come segno al culto dei morti dalla pietà popolare, in origini, sorgeva un basso cippo, in quella pietra arenaria, detta con voce dialettale “prea molera”, grossolanamente scavata a tracciarvi una croce, diventato in un secondo tempo, basamento di una bella croce in pietra grigia dalle braccia leggermente rastremate. I tempi dell’evoluzione del manufatto sono scanditi dalle epidemie 1348 – 1478 – 1576 – 1630 che con incidenze più o meno elevate colpirono il territorio. Croce e cippo rimasti isolati, scoperti, esposti alle intemperie che li logorarono, per almeno quattro o cinque secoli, furono successivamente integrati nella recinzione della proprietà D’Adda nel 1840-1845 (dopo le nuove acquisizioni del 1809 e la sistemazione dei giardini fatta dal Balzaretti), a margine della strada dei boschi (strada di Spasaa), con una piccola cappella denominata “ai mort lungh”: meta di umili preghiere nascoste, di dolorose confidenze sussurrate ai propri defunti e di innumerevoli, fervide processioni ad invocare aiuto e protezione alla speranza del raccolto.

L’antica croce di ferro, a forma di croce di san Maurizio, cioè con le estremità trilobate, rimossa dalla sua collocazione originale, si trova ora murata a retro della croce di pietra al centro absidale della cappellina.

i mort cappelletta


LA TRADIZIONE

 Il racconto

Nelle lunghe giornate delle pause invernali dal lavoro nei campi, riuniti nelle stalle al caldo tepore animale, mentre gli uomini rassettavano o costruivano a nuovo gli arnesi agricoli e le donne filavano, tessevano o rabberciavano gli scarsi indumenti, la storia delle passate vicende veniva narrata e di generazione in generazione si tramandavano la provenienza e la diffusione del clan, i legami parentali, i soprannomi, le emigrazioni da paese a paese e gli avvenimenti che avevano caratterizzato periodi particolari.

Anche il racconto delle pestilenze, pur sfumato via via nel tempo dalle memorie, restato patrimonio ereditario di semplici cantastorie che ricevevano la carità di una minestra in cambio della narrazione, faceva pare degli intrattenimenti invernali e la rievocazione di angosce e patimenti rendeva più sopportabile inducendo rassegnazione alla durezza del vivere.

i mort stalla

Il culto dei morti

La fede che i defunti avessero la possibilità di farsi intermediari tra il mondo materiale e il mondo spirituale per propiziare protezione e benessere è presente fin dall’eneolitico e sopravvive ancor oggi in molte religioni che ne hanno conservato il carattere primitivo,

 “…dal dì che nozze, tribunali ed are fero alle umane belve esser pietose…”. Così Foscolo identifica l’inizio dell’incivilimento della specie umana. Storici, antropologi ed etnologi ne hanno studiato e spiegato l’evoluzione nel tempo. In particolare, per quanto ci concerne, nelle civiltà contadine, il morto era considerato ancora facente pare della famiglia sia nella narrazione delle vicende che ne avevano caratterizzato la vita, sia negli insegnamenti tecnici e morali che rimanevano a fondamento del vivere nel clan: il cibo preparato per il morto, la luce accesa davanti al simulacro e la nominazione continua del defunto erano i segni della fede nella presenza che trascende la materia.

Il grande fenomeno delle epidemie, riunendo i morti nelle fosse comuni, compattava i vari nuclei in un unico comune riferimento: la preghiera, il culto e l’invocazione non erano più per il morto della famiglia ma per i morti della comunità intercessori presso la divinità.

 Le processioni (da “La storia di Arcore”)

“…L’arcivescovo Romilli negli Atti della Visita Pastorale (1856) annotava che tra le più radicate consuetudini devozionale del popolo di Arcore vi era la processione mensile al cimitero e quella ancor più frequente «ad tumulum pro defunctis peste ereptis» («al sepolcro per i morti strappati via dalla peste»). Del resto, questi raduni di fedeli in cui si invocavano i morti per ottenere la pioggia durante la siccità, la fine delle alluvioni e delle epidemie, erano un uso invalso in quel tempo in numerosissime località dell’area lombarda…”

PROCESSIONE

Evidentemente quando si parla di radicate consuetudini si arretra notevolmente nei secoli. Anche se è da ritenere che già dalle prime pestilenze trecentesche questa devozione fosse affermata, non vi sono documenti che lo comprovino, rimane comunque il fatto che secoli e secoli dopo siamo ancora qui oggi a pregare e a chiedere grazie alla divinità attraverso l’invocazione ai morti.  i mort croce 2