SULLE ORME DELLO SCIAGURATO EGIDIO (CAPITOLO 3)
OSIO E SUOR BENEDETTA RIPRENDONO LA FUGA
Riprendiamo il nostro racconto, a questo punto dobbiamo fare un passo indietro, torniamo alla notte del 29 Novembre, la corrente del Lambro trascina a valle suor Ottavia, che in cerca di salvezza si finge morta, suor Benedetta e l’Osio ne sono convinti e la lasciano al suo destino. Da quel momento, non abbiamo più notizie dei due. Arriviamo al 2 Dicembre, in quella data, il diligente notaio Francino, accontenta la nostra curiosità. In compagnia del vicario Saracino, è nuovamente a Sant’Orsola per proseguire l’interrogatorio di Suor Ottavia, ma ecco che il notaio, intento a redigere le solite formule introduttive alla deposizione, viene interrotto. Arriva da loro un messo inviato dall’arciprete, con notizie “calde”. L’uomo si rivolge al Saracino, come verbalizza il notaio e informa che il fiscale di Monza Torniello, uno dei due rappresentanti la giustizia civile nella città, ha ragguagliato l’arciprete, suor Benedetta è stata trovata a Velate, non sa se sia viva o morta, ma è senz’altro necessario, che la squadra investigativa parta subito per quella località per accertarne la sorte. La decisione d’interrompere l’interrogatorio è subito presa e solleciti i due raggiungono la casa dell’arciprete, qui lasciamo la parola al notaio, che ricorda il succedersi degli accadimenti “Trovatavi una carrozza da nolo preparata per altro scopo, col permesso di coloro che l’avevano portata, montò in essa insieme a me notaio sottoscritto, al signor arciprete e ad alcuni servitori, si recò al detto borgo di Velate insieme ad alcuni altri servitori a cavallo e vi giunse a mezzanotte circa. In una stanzetta dell’abitazione del signor Alberico de Alberici, situata nel medesimo borgo di Velate, vedemmo e trovammo una donna distesa su un letto, col capo ricoperto di panni di lino come una monaca, che gemeva e si lagnava alquanto. Interrogata sul suo nome cognome e professione, rispose: io son suor Benedetta Homati monaca professa di s. Margarita di Monza”.
Immaginiamo la piccola carovana che in quel tardo pomeriggio con la prospettiva che in breve si sarebbe fatto buio, percorre tratturi e strade impantanate dalle piogge dei giorni precedenti e finalmente, arriva a Velate.
Una volta entrati nell’abitazione di Alberico de Alberici, non hanno dubbi nell’accertare l’identità della donna, e subitamente danno disposizione di tradurre anche la seconda fuggiasca al monastero di Sant’Orsola. A noi ora, il compito di ricostruire come la monaca in compagnia dell’Osio, che avevamo lasciato poco dopo le Grazie di Monza, abbiano raggiunto Velate. La località dista da Monza circa cinque miglia, come intendiamo da un’altra testimonianza di Bernardino Sarono, uno degli operai che viene chiamato, in seguito, per ispezionare il pozzo in cui è stata ritrovata la monaca, “Signoria sì che io so dove è la terra di Velate discosta cinque miglia incirca da Monza e ci son stato da tre o quattro volte et l’ultima volta che ci andai fu hoggi otto giorni che il signor fiscale Torniello mi ci condusse”
Nove chilometri dividono dunque le località. Come li percorrono i due e che strada scelgono? Abbiamo illustrato la viabilità che risalendo la sponda destra del Lambro raggiungeva la Brianza, è li, che indirizziamo la nostra attenzione. In questa prospettiva inquadriamo il racconto di suor Benedetta. “Poi lasciata detta suor Ottavia che pensava fosse morta seguitassimo il viaggio dietro al Lambro, et poi per traversi arrivassimo in una casa lontano da Monza cinque o sei miglia. Qual casa ha la porta grande et la camera nella quale io fui rimessa era da basso che vi si ascendeva solo per un basello o doi et vi era il camino, et certe cose dresegatte cioè zocchi che vi si poteva seder sopra et vi erano molti legni resegati a quel modo, et quella casa è grande et ha una gran corte, et trovassimo la porta aperta cioè serrata a presso, et non vedessimo alcuno, et in quella casa dove non era letto né altra cosa che quello che sopra ho raccontato stetti il rimanente di quella notte et tutto il giorno seguente che fu venerdì sempre sola et così vestita che non viddi detto Gio. Paolo Osio se non una volta che venne là et era tardi a portarmi pane formaggio uva et del vino in un fiaschetto piccolo ma io non ne volsi bevere dubitando che non fosse attossicato per quello che havevo visto fare a suor Ottavia et il mangiare lo portò con mano et mi disse è hora di mangiare, ma io me ne curai poco e stetti sin sera a mangiare.”
Sollecitata nel fornire ulteriori indicazioni sull’ubicazione dell’abitazione descritta, la monaca nel proseguire la sua deposizione aggiunge: “non son stata in altra casa che in quella che ho detto di sopra e non so di chi sia, né detto Gio. Paolo me lo disse, et è una casa in campagna che non ne viddi altra e non so se fosse vicina alla strada maestra o lontano perché mi condusse sempre per traversi”. Forti di queste indicazioni cerchiamo di dipanare la matassa.
I FUGGIASCHI FANNO TAPPA NELLA CASA SCONOSCIUTA
La notte di tregenda prosegue, i fuggiaschi percorrono un considerevole tratto di strada, la stima in miglia della monaca è eloquente, del resto non si sa, se volutamente o meno, l’Osio cerca di disorientare la monaca, conducendola per “traversi”, e quindi allungando certamente il tragitto, fino a che, non più protetti dalla notte, si fermano nell’abitazione, appena descritta dalla monaca.
La casualità di aver incontrato questo ricovero è nelle parole di suor Benedetta, ma non certamente nelle intenzioni dell’Osio, che conduce ad arte la danza.
Abbiamo supposto che la fuga si sia svolta seguendo la direttrice, così detta del Gernetto.
Tenendo per valida, l’ipotesi possiamo presumere che i protagonisti fossero in condizione di scavalcare il Lambro a Canonica, ed è qui che ci sentiamo di collocare l’ubicazione del rifugio.
Nessuna prova concreta, anche, se subito oltre il ponte di Canonica, la presenza della villa Taverna, ci fa balenare un’idea. Il pensiero, che questo possa essere stato durante la fuga, il rifugio precario di un solo giorno, prende corpo. La congettura, si basa, su alcune verità, e su altri fraintendimenti. Certa, é la frequentazioni, dello sciagurato Egidio, con il conte, Ludovico Taverna. Una presenza, quella del Taverna, che tornerà prepotente, nel sancire la fine dell’Osio.
Differenti episodi, descrivono la sua morte. L’ipotesi, che gode di maggior seguito, sostiene che, Gian Paolo Osio, condannato contumace e ricercato, come documentano alcuni bandi dell’epoca, chiese rifugio al Taverna, che da sempre annoverava fra le sue amicizie di rango. Sperava che il ruolo, ricoperto dall’amico, nell’ambito del senato milanese, potesse rivolgersi a suo favore, e garantirgli riparo, in attesa di tempi migliori. Con evidenza la scelta del nobile fu di prudenza, evitando di assume una posizione che l’avrebbe esposto alle ire del potere costituito. L’Osio ospite dell’importante membro del senato, con qualche scusa fu indirizzato nelle cantine del palazzo, dove un sacerdote apposta convocato, giusto per togliere al padrone di casa gli ultimi rimorsi, impose una rapida assoluzione dei peccati allo stralunato Gianpaolo, che fu subito giustiziato. Tutto, si svolse nella dimora milanese del Taverna, l’attuale palazzo Isimbardi, e non nella villa di Canonica, come superficialmente indicano, alcune fonti.
Ritorniamo alla costruzione di Canonica e ci chiediamo, se la stessa possa rispondere alla descrizione alquanto sommaria di suor Benedetta.
Non lo sappiamo. Al tempo dei fatti non era la dimora che oggi conosciamo. Del resto il rifugio descritto poteva essere solo una parte secondaria del complesso o qualche “dipendenza” dello stesso.
L’unica certezza, è che l’Osio, non ci arriva per caso. I due trovano la porta accostata, ma non chiusa, a dimostrazione della disponibilità, che l’Osio ha del luogo. Abbiamo poi notizia, che lo stesso Osio sia stato nei dintorni e probabilmente nella stessa abitazione, anche i giorni precedenti. Gli atti del processo e una lettera dello stesso Osio, al cardinale Borromeo, ce lo confermano. L’Osio aveva inviato, quel fatidico 29 Novembre, un suo messo al convento in cerca di notizie di suor Maria Virginia, sappiamo che lo stesso di ritorno, porta all’Osio la richiesta d’aiuto delle due monache per mettere in atto la fuga. Dai documenti del processo, prende forma l’identità del messaggero, partiamo dalla descrizione di colore che ne fa una testimone del processo, la figlia della “fattora” del convento, di nome Costanza de Regibus di Ello, ha 16 anni, aiuta la madre ed è al corrente dei “maneggiamenti” che avvengono nel convento, “Quell’huomo che è un certo smorto di mezzana statura con poca barba castagna vestito con un feraiolo credo fosse tanè (marrone scuro rossiccio) et un cappello nero in testa”, aggiungiamo ancora qualche elemento, con le parole di suor Benedetta “huomo vestito da massaro da me non conosciuto” arriviamo ora, grazie all’Osio, a dagli un nome, Damiano fattore della Canonica, come trapela dalla lettera che l’Osio nel tentativo di discolparsi degli omicidi commessi, invia al cardinale Borromeo. Riferendosi a suor Benedetta e raccontando a metà, giusto per costruire una sua verità, l’episodio del messo ci dice: “che fu Benedetta, retrovandomi alla canonicha me mando uno bilieto e fu la vigilia di s.ta Andrea da Damiano fattore di detta canonicha”. Identificato il personaggio, passiamo ora ad un altro elemento che dimostra la complicità e la discrezione di cui possa contare, presso questa abitazione, ancora l’Osio. Durante il giorno di permanenza, lo stesso, ritorna dalla monaca con dei viveri, non certo trovati casualmente e l’offerta di uva, nel mese di Dicembre, ci fa sospettare che non sia una mensa raccattata alla bella e meglio presso qualche diseredato. Per la cronaca la monaca, memore della fine di suor Ottavia, preferisce non toccare cibo per non essere “attossicata”
Abbiamo ancora d’aggiungere un indizio, che concorre ad insistere sulla collocazione del luogo descritto, si basa sul successivo tratto del percorso compiuto dai due.
Tutta la giornata è trascorsa, il sole è tramontato da diverse ore, la suora stima oltre cinque, quando l’Osio si ripresenta per dare il là, come vedremo, all’ultima tappa della fuga.
Lasciato il rifugio precario, suor Benedetta ritorna nella sua deposizione e afferma: “venne là, intorno alle quattro o cinque ore, di notte, e così, ci partissimo di là, e dopo che avessimo camminato, un pezzo, cioè qualche tre miglia, per traversi, arrivassimo in una campagna, dove c’è, un boschetto”.
La distanza stimata da suor Benedetta e percorsa prima di raggiunge il boschetto, è di ulteriore conforto per collocare la misteriosa abitazione, appena oltre il ponte di Canonica. Nella consultazione delle mappe d’epoca una conveniente scoperta, viene in aiuto.
In occasione del censo di Carlo VI relativa al territorio di Canonica, la strada che costeggia villa Taverna e il Lambro andando in direzione di Gerno, è provvidenzialmente indicata come “strada che va a Velate”.
Abbiamo un’importante conferma, a differenza della viabilità odierna per raggiungere Velate venendo da Monza, si poteva passare da Canonica, tanto che il luogo, anche se oggi può apparire defilato, risultava un nodo significativo sul percorso dell’epoca. La storicità del luogo, legata alla viabilità che qui transitava, è ampiamente documentata. Da tempi antichi, una costruzione militare, su cui in epoche successive sarebbe sorta l’attuale villa Taverna, proteggeva il guado che permetteva l’attraversamento del Lambro. Citata come stazione di posta, per alloggiare i viandanti e assicurare le “necessità” del viaggio, la sappiamo situata sull’importante itinerario che da Milano raggiungeva i possedimenti della Repubblica di Venezia. Ecco dunque che possiamo indicare, a conferma degli itinerari stradali citati, la sequenza delle località che tale via incontrava e che sono di ulteriore conforto alle ipotesi fin qui esposte. Lasciata Canonica la strada incontrava Zerno (Gerno), Lesmo, Velate, dirigeva senz’altro verso Vimercate per fare infine rotta su Trezzo e scavalcare l’Adda. Riandando ancora una volta agli atti del processo, possiamo avere una conferma indiretta, dalle ripetute richieste delle monache che in più di un’occasione chiedono all’Osio di condurle verso la bergamasca, dunque anche se le intenzioni dello sciagurato Egidio, si riveleranno diverse, in effetti lo stesso dirige le sventurate su un cammino che conduce verso la repubblica di Venezia. Ritornando ai fuggiaschi, ipotizziamo che con buone probabilità, più per traversi, che per strade battute, i due procedono lungo questo percorso, forse preferiscono inoltrarsi seguendo il corso del Rio Pegorino su una tratta più discreta e isolata, giunti all’altezza di Lesmo lo scavalcano, e dirigono verso il fatidico “pozzone”.
ALLA PROSSIMA PUNTATA…
Aspetti, località e storia della Brianza. "Ci sono paesaggi, siano essi città, luoghi deserti, paesaggi montani, o tratti costieri, che reclamano a gran voce una storia. Essi evocano le loro storie, si se le creano". Ecco che, come diceva Sebastiano Vassalli: "E’ una traccia che gli uomini, non tutti, si lasciano dietro, come le lumache si lasciano la bava, e che è il loro segno più tenace e incancellabile. Una traccia di parole, cioè di niente".
Molto bello il blog… però aspetto nuovi post, è da troppo tempo che non ci sono aggiornamenti. Vabbè, intanto mi sono iscritto ai feed RSS, continuo a seguirvi!
Ci siamo quasi, nei prossimi giorni un post nuovo
[…] I fuggiaschi una volta lasciata Monza, attraverso una breccia nella prossimità della porta del Carrobiolo, percorrono ora più accosti, ora più distanti, la riva destra del Lambro, giungendo in prossimità del ponte in legno dell’epoca, costruito in occasione della fondazione del monastero delle Grazie, per unire lo stesso alla città, oltrepassato lo stesso, si ritrovano davanti alla porta della chiesa che a quell’ora è serrata. I tre, che nonostante abbiano ripetutamente violato le leggi di Dio e degli uomini, hanno ancora in animo di rivolgere una supplica al Cielo, spinti dalla consuetudine, non certamente, dai dettami dell’anima. Per chi ha curiosità di conoscere il seguito, sarà reso edotto qui. […]